Primi anni ’60 del secolo scorso: windsurf, sole, spiagge, mare: ecco la California del sogno hippy, quello peace & love della beat generation, nell’America dell’Età dell’Acquario. Quando si nominano i californiani Beach Boys si evocano i ritmi e le voci di canzoni come Barbara Anne e Surfin’safari, che per i “baby boomer” sono i suoni della nostalgia e dei sogni ad occhi aperti.
Ma se vogliamo dirla tutta, i Beach Boys non sono stati solo questo ma la loro parabola artistica e umana ha avuto uno sviluppo ben più adulto e drammatico.
C’è stato, è vero, un primo tempo vissuto con l’esuberanza della giovinezza: i fratelli Wilson (Dennis, Carl e soprattutto il deus ex machina Brian), il cugino Mike Love e l’amico Al Jardine diventano celebrati alfieri e ambasciatori nel mondo della surf music: creatori nell’orizzonte pop rock di un codice fatto di armonizzazioni vocali e suoni inediti per quegli anni del secondo dopoguerra.
Dal 1961 sfornano una serie sterminata di successi veicolati dai juke box e dalle radio di tutto il mondo.
Ma sotto l’inquieta guida artistica e umana di Brian Wilson, gli scanzonati beach party, previa una cospicua assunzione delle prime droghe condivise, vengono abbandonati e si insinua la frustrazione di una crisi esistenziale, in aperta ribellione verso i dettami conformistici del moralismo borghese della generazione adulta. Crisi umana che viene combattuta nella ricerca di un prodotto musicale sempre più raffinato, nell’ossessione della canzone perfetta.
Contemporaneamente, dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico, precisamente in Inghilterra, è scoppiata un’ altra bomba musicale: da Liverpool, quattro ragazzotti, stanno cambiando il costume dei teenagers; si chiamano Beatles e stanno conquistando l’industria discografica con il loro crossover di ballate melodiche e scatenato rock che non sembra avere pause creative.
Nasce un duello artistico tra i ragazzi della spiaggia e gli scarafaggi, si ascoltano, cercano di carpire i segreti delle rispettive hit, si stimano e non si copiano. È la fine del 1965 i Beatles pubblicano l’album “Rubber Soul” (qualche titolo: “Norwegian wood”, “Michelle”, “Girl”, “Nowhere man”); Brian Wilson è particolarmente colpito dalla tracklist e decide che dovrà rispondere alzando l’asticella della futura produzione del gruppo.
I Beach Boys danno quindi alle stampe l’album che unanimamente la critica discografica (un po’ meno le vendite) eleggerà come “il disco capolavoro del rock”: Pet sounds.
Anche se le condizioni mentali di Brian cominciano a diventare sempre più precarie tanto che si ripercuotono sui rapporti con gli altri componenti del gruppo (gli acidi e una innata ossessività psicologica incidono progressivamente nell’equilibrio della sua psiche), “Pet sounds” è il superbo risultato di una estenuante ricerca di nuove soluzioni vocali e strumentali e di una certa causticità nell’abbinare alla musica echi di rumori della vita quotidiana. Brani come “Wouldn’t it be nice”, “Caroline no”, il recupero del traditional “Sloop Johnny B”, ma soprattutto “God only knows” (che farà gridare Paul Mc Cartney al miracolo musicale) entrano di diritto nel catalogo delle meraviglie della storia del rock, anche se l’apice dell’armonia vocale applicata al rock “made in Brian Wilson” sarà l’osannato “Good Vibrations” che uscirà come singolo alla fine del 1966, sbancando le classifiche dei dischi più venduti. Ormai Wilson è riconosciuto genio dell’arrangiamento pop, non solo dalla critica ma anche dai suoi stessi colleghi, concorrenti discografici, che seguiranno la sue intuizioni.
Ma la carriera che sembra lanciata verso gli allori del successo deve fare i conti con lo squilibrio mentale che sempre più si impossessa del musicista e lo plagia sotto l’influsso di LSD; l’acido lentamente gli brucia il cervello e lo allontana progressivamente dalla realtà quotidiana: Brian, alla perenne ricerca della “canzone perfetta”, vuole alzare l’asticella della sua creatività, quasi al parossismo. Vuole dimostrare la sua genialità e unicità rispetto ai lodatissimi Beatles, che intanto sfornano un altro pezzo da novanta, l’album “Revolver” (“Eleanor Rigby”, “Good day sunshine”, “Got to get you into my life”, “Here, there and everywhere”, per intenderci …)
Licenzia (momentaneamente) il resto del gruppo, si chiude nella sua villa di fronte all’Oceano, pretende che nel grande salone in cui troneggia il pianoforte vengano scaricati quintali di sabbia in modo da comporre con i piedi immersi come in spiaggia. È una furia: obbliga i musicisti a suonare con in testa i cappelli da pompiere mentre la sua manìa di persecuzione aumenta sempre più. L’album si chiamerà “Smile”, descritto come “una sinfonia giovanile dedicata a Dio” e dovrà essere una miscela esplosiva di inesplorate sensazioni musicali: richiami alla tradizione popolare americana, tra jazz, Gershwin, doo woop, rock polifonico. Insomma, un progetto rivoluzionario, qualcosa che nessuno in quegli anni ’60 avrebbe mai concepito. Il tutto confezionato con testi al limite dell’assurdo del paroliere Van Dike Parks, un giovane piuttosto squinternato.
Piccola avvertenza per il lettore: tiri un po’ il fiato e presti un po’ d’attenzione a ciò che l’autore di questo articolo vuole segnalare. Da adesso in poi nel racconto si alterneranno la cronaca della realtà dei fatti e le leggende in qualche maniera verosimili, che hanno reso questa sconcertante vicenda uno dei misteri più intriganti della storia del rock, un esempio di come il desiderio di un traguardo creativo segni indelebilmente la sanità mentale di un artista, con esiti imprevedibili.
Bene, lettore avvisato, si continua il racconto.
Abbiamo lasciato Wilson a completare le sue composizioni: “Heroes and Villains”, “Cabin essence”, “In blue Awaii” “Surf’s up”, e ora tutto è pronto, l’album, dopo questa febbrile gestazione, può andare in stampa.
“Ora – pensa Brian – potrò riposare e godere della incredulità non solo della critica, del pubblico, ma anche di quei ‘professorini’ dei Beatles”.
Ma il destino stava giocando un brutto scherzo al “beach boy”: mancano pochi giorni all’uscita nei negozi, quando per pura coincidenza, Wilson si trova tra le mani, in anteprima una copia del nuovo lavoro dei Beatles. Titolo: “Sgt.Pepper & Lonely Heart Club Band”. L’ascolto gli risulta sconvolgente: tutto quello in cui era convinto di essere capostipite era già stato pensato e realizzato su vinile dal quartetto di Liverpool: “Lucy in the sky with diamonds”, “With a little help of my friends”, “A day in the life”. Per Brian ormai obnubilato dalla sua follia è troppo: settimane di prove, di ricerche, di tentativi, di soluzioni, spazzate via dalla genialità di Lennon e Mc Cartney! La sfida l’avevano vinta loro!
Nella sua mente annebbiata si sente come Icaro che una volta avvicinatosi troppo al sole sta precipitando rovinosamente a terra con le ali di cera ormai completamente sciolte.
Ora non vuole essere ulteriormente umiliato, nessuno dovrà mai ridere di lui, non vuole arrivare secondo, meglio ritirarsi. E così in una notte drammatica distrugge i nastri delle registrazioni e (leggenda?) appicca il fuoco nel magazzino dove erano conservati le copie dei vinili e le copertine pronte a essere distribuite nei negozi. Infine, si rinchiude definitivamente in se stesso: passerà decenni in analisi, alla ricerca della propria identità e del proprio equilibrio mentale. Di quell’album non si saprà più nulla, se non la pubblicazione di una manciata di brani scampati alla furia iconoclasta del loro autore.
“Smile”, per gli addetti ai lavori e per i fans dei Beach Boys diventerà una sorta di Sacro Graal.
Ma, ecco, l’epilogo sorprendente: alla fine degli anni ’90, dopo aver raggiunto una fragile serenità psichica, Brian Wilson ritorna a suonare, a comporre canzoni, a incidere dischi: ma c’è ancora un mistero da svelare. E così nel 2004 (esattamente 20 anni fa) ritorna in sala d’incisione con il gruppo che lo segue da qualche anno e decide di richiudere la ferita responsabile della sua uscita di senno, quarant’anni prima.
Smile” diventa realtà ascoltabile e si palesa nella sua grandezza anticipatrice da quei magmatici anni ’60, anche se non sapremo mai come effettivamente suonasse durante quei giorni folli della sua creazione.
Purtroppo il racconto, non è completamente a lieto fine: in questi giorni del 2024 ci arriva la notizia che la malattia neurologica degenerativa della quale Wilson è afflitto è peggiorata e sancisce la fine del capitolo pubblico e artistico fondamentale per la musica e la cultura americana, e non solo.
Quel capitolo il cui protagonista è un genio musicale che ha messo a repentaglio la propria vita, alla ricerca della “canzone perfetta” fino a scrivere “una sinfonia giovanile dedicata a Dio”.
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