Vi era un tempo in cui i fatti del mondo si svolgevano non certo in modo ordinato, ma apparivano decifrabili. Vigeva un’ermeneutica condivisa. Due superpotenze con sistemi economico-sociali, ideologie, concezioni del mondo, sistemi di sicurezza diametralmente opposti si fronteggiavano. Lo scontro era totale. Si recitava sul palcoscenico globale un copione largamente prevedibile. Agli attori non protagonisti erano lasciati pochi spazi di manovra, in teoria tre opzioni. Aderire all’Occidente, cioè allearsi con gli Stati Uniti, volgere la scelta verso l’Unione Sovietica, oppure cercare di ritagliarsi un margine d’azione autonomo, una terza via, scegliere il non allineamento, possibilità aperta agli Stati appartenenti al Terzo mondo.
Poi arrivò l’impensabile. L’implosione dell’impero sovietico aprì un vuoto enorme nel governo del sistema-mondo. Rimasero solo gli Stati Uniti e i loro alleati. Senza combattere, avevano vinto la Guerra fredda: gli Usa potevano dimenticarsi la sconfitta del Vietnam, le crisi interne, gli amici indisciplinati, le sfide di un’Europa indecisa e pusillanime. Per circa i due decenni successivi Washington è stata l’unico direttore d’orchestra, cieca davanti a quello che stava accadendo, con due punti di forza micidiali che la rendevano unica. Una superpotenza militare senza pari con un dominio assoluto del mare, dell’aria e una capacità di proiezione straordinaria, e una potenza economico-industriale finanziaria tecnologica che si concretizzava nel predominio del dollaro, moneta di scambio e di riserva internazionale.
Sul tappeto rimanevano questioni enormi. Il vaso di Pandora si era scoperchiato. Il disgelo aveva aperto le porte al caos. In fondo, la Guerra fredda aveva svolto la funzione di katéchon, chiave di volta di tutta la dimensione politica: il bipolarismo aveva impedito l’apocalisse nucleare.
E adesso, dopo il crollo del Muro di Berlino? Potevano gli Stati Uniti prendere sulle loro spalle i destini dell’intero mondo? Di un mondo che diventava ogni giorno sempre più complesso, dove la storia aveva ricominciato a correre, dove si stava svolgendo la rivoluzione informatica? Dove la globalizzazione con tutte le sue conseguenze sociali e culturali, dalla secolarizzazione allo sradicamento culturale e sociale, coinvolgeva ogni angolo del mondo?
La risposta negativa è ovvia, le domande sono retoriche. Il fallimento è dovuto a una serie di fattori anche imprevedibili, come l’11 settembre, che ha distolto Washington dai cambiamenti epocali e distorto lo sguardo. Hybris, fiducia smisurata nelle proprie capacità e forza, visione idealistica del mondo letto come una lavagna bianca su cui poter scrivere una storia nuova, affidamento sulla forza della “mano invisibile” del mercato secondo un liberismo scriteriato, assenza di interlocutori globali credibili, in primo luogo vuoto cerebrale dell’Europa, hanno impedito l’unica strada possibile: rendere le istituzioni che reggevano il mondo inclusive, cercando di coinvolgere i nuovi arrivi a partire dai grandi, Russia, Cina, India, Brasile, Nigeria, Egitto e così via, per disegnare una cornice di governance mondiale condivisa.
A mancare è stata la costruzione di una nuova architettura del sistema internazionale. Ma prima della costruzione, a mancare, anche in questi drammatici giorni, sono le idee su cui basare il nuovo ordine. Mancando una visione e la volontà politica, ci hanno pensato gli eventi a segnare la strada, perché il mondo si muove a velocità mai viste prima, e il vuoto in politica non esiste. Guerra in Ucraina e dura competizione tra Cina e Stati Uniti hanno la funzione di acceleratori di processi in corso che vedono molti altri Paesi non figurare più, come comparse costretti a ruoli secondari, costretti a scegliere una volta per tutte gli amici e alleanze. La riunione dei Brics in SudaAfricadei giorni scorsi ha visto l’invito rivolto a Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Egitto, Etiopia ad aggiungersi a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
I Brics indicano la strada verso un nuovo multipolarismo segnato da alleanze non più ideologiche ma opportunistiche, pragmatiche, costruite volta per volta per risolvere singoli problemi. Stati che svolgono un ruolo decisivo, che possono spostare la bilancia internazionale del potere. Sono Paesi relativamente stabili con una agenda indipendente dagli Usa o dalla Cina, determinati a usare il loro potere, le loro capacità a seconda dei propri interessi in modo flessibile, dinamico e strategico. E che spesso optano per il multi-allineamento, scelta che rende la loro azione imprevedibile e destinata a creare enormi difficoltà alle grandi superpotenze.
Insomma siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione e della competizione tra superpotenze. Esempi eclatanti di questi nuovi comportamenti sono la Turchia, l’India, il Sudafrica, l’Arabia Saudita. Ankara fa parte della Nato ma non aderisce alle sanzioni volute da Washington contro Putin e gioca una propria partita nel Mediterraneo, in Asia centrale e Medio Oriente, che la vede a volte alleata con la Russia, a volte avversaria come in Siria e Libia. Oppure si può guardare a Delhi, che da una parte adersice al Quad (Quadrilateral Security Dialogue), alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti in funzione anticinese, nemico tradizionale, ma firma a febbraio di questo anno con gli Usa un accordo bilaterale sulla tecnologia e la difesa, questa volta per svincolare le proprie forze armate dai sistemi provenienti dalla Russia, alleato storico dell’India.
A definire il passo di questo nuovo multilateralismo non più ideologico ma tutto geopolitico all’insegna dell’affermazione dell’interesse nazionale, la riprova delle differenze istituzionali dei Paesi aderenti ai Brics, che comprendono Stati autoritari a partito unico, democrazie, repubbliche o monarchie, teocrazie e così via, per di più con ruoli e pesi, e quindi problemi, diversi. Insomma, unione à la carte, in questa fase diretta alla ricerca di una autonomia dal dollaro e di finanziamenti alternativi alle clausole giudicate vessatorie del Fmi.
È difficile dire come evolverà il quadro mondiale. Certo è che approcci manichei in bianco e nero, come l’Alleanza per la democrazia lanciata da Biden, sono nella migliore delle ipotesi annunci propagandistici, di certo non in grado di afferrare la complessità articolata del presente. E infatti, forse un po’ lontano dagli occhi della pubblica opinione, ecco Washington lanciare una selva di accordi multilaterali per lo sviluppo economico, commerciale e tecnologico. Ecco l’Accordo commerciale con Messico e Canada; il Partenariato Economico Globale Regionale, accordo di libero scambio nella regione dell’Asia-Pacifico tra i dieci Stati dell’Asean e cinque dei loro partner quali Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud; il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, accordo commerciale tra Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Regno Unito, Singapore e Vietnam; oppure l’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef) che comprende 13 Paesi, tra cui Stati Uniti, Giappone e India, Corea del Sud, Australia, Brunei, Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam.
Nessuno può azzardare una previsione, ma quello che sta avvenendo è una trasformazione profonda. Una nuova Yalta tra le cinque superpotenze ormai è impossibile, sono passati 35 anni dall’89 e l’occasione della conferenza di pace è stata persa. Ma la realtà è più ricca di quello che possiamo pensare e indica a Washington e Bruxelles una strada inaspettata e difficile tra mantenimento di cornici di sicurezza esistenti come la Nato e multilateralismo ormai inevitabile.
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