Briganti è la serie tv in sei puntate disponibile su Netflix. Lo dico subito, vale la pena vederla per vari motivi che poi esporrò.
1860, i garibaldini espugnano Palermo, sottraggono quintalate d’oro che dovrebbe rimpinguare le casse piemontesi, ma il carico sparisce in Lucania nel viaggio verso il nord. C’è una mappa che segna il luogo dove è stato nascosto, è nelle mani di un signorotto borbonico che tratta la plebe e la moglie Filomena come schiavi. La donna si ribella e lo uccide, scappa con la mappa e incontra una banda di briganti che inizialmente son diffidenti, ma poi la accolgono. Sulle tracce dell’oro c’è Sparviero, un ex garibaldino, cacciatore di briganti, che lavora per i piemontesi. Le loro strade s’intrecceranno.
Gli invasori sabaudi inviarono truppe nel regno borbonico, depredarono, seviziarono, uccisero contadini, donne bambini e religiosi, il popolo si ribellò e nacque il fenomeno del brigantaggio.
Omm s’ nasc’ brigant’ s’ mor’
Ma fin’ all’urdm’ avimma sparà
E se murimm menat’ nu fior’
È ‘na preghiera pe’ ‘sta libertà
È ‘na preghiera pe’ ‘sta libertà.
Ogni puntata di Briganti inizia con una clip video con questa strofa della canzone Brigante se more scritta da Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò nel 1979 come sigla per lo sceneggiato Rai L’Eredità della priora (sette puntate), una delle pochissime trasposizioni cinematografiche che contesta la storiografia sull’unità d’Italia.
Briganti attinge a piene mani dalla storia del brigantaggio inserendo personaggi e fatti liberamente romanzati.
L’eroina è Filomena (Michela De Rossi), figura mai esistita realmente, che convince la banda di Pietro Monaco (Orlando Cinque) e della moglie Maria “Ciccilla” Oliverio (Ivana Lotito) a cercare l’oro. Questi sono veramente esistiti, ma erano attivi in Calabria e non in Lucania. Così come i briganti con a capo Cosimo Giordano (Ernesto D’Argenio) nel beneventano. L’unica lucana è Michelina Di Cesare (Matilda Lutz) con la sua banda.
Lo Sparviero, Giuseppe Schiavone, è esistito, appartenente di spicco alla banda pugliese di Carmine Crocco.
I tratti dei personaggi, come la storia della ricerca dell’oro, sono un po’ romanzati, resta la guerra contro i piemontesi. Vi è molta violenza chiaramente, ricalca la drammaticità del periodo, con tanto di tradimenti realmente avvenuti e di stragi dei sabaudi.
Una cosa che placherà gli animi delle femministe: le figure principali e messe in evidenza nella narrazione oltre a Filomena sono le brigantesse Ciccilla Oliverio e Michelina Di Cesare. Di fatto rubano la scena agli altri briganti e molte decisioni ruotano attorno a loro.
Lo Sparviero (Marlon Joubert) è qui romanzato completamente, salta il fosso diverse volte ed è rappresentato in stile Clint Eastwood, solitario, stesso cappello e mezzo sigarillo, spolverino dei film western (Il Cavaliere Pallido) e maglia rigata di Lo chiamavano Trinità. C’è sicuramente un richiamo al filone più come citazioni, ma contrariamente a quanto qualcuno ha scritto non è uno spaghetti-western. La battaglia finale davanti alla chiesa, la mitragliatrice piemontese, i rallenty, mi ricordano Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah.
Briganti è recitata perlopiù nei dialetti del sud Italia, cosa non certo semplice che esalta la buona interpretazione degli attori. Tutti o quasi italiani, non sulla cresta dell’onda, ma veramente bravi e convincenti, altra categoria rispetto agli interpreti delle vecchie fiction di Taodue (leggi Mediaset). È una produzione ideata, sceneggiata e con attori made in Italy. Uno dei registi (sono tre), Steve Saint Leger, ha diretto le serie Walhalla e Barbari e il loro stile e utilizzo dei mezzi tecnici è veramente ottimo, da cinematografia internazionale.
Una produzione comunque coraggiosa, difficile mettere in dubbio e discutere sulla storia, soprattutto italiana, si passa per revisionisti, ormai accezione negativa.
Visto il finale (non spoilero), spero ci sia una seconda stagione, entra in gioco con un’apparizione conclusiva di meno di un minuto Salvatore Esposito (Gomorra) nelle vesti di Carmine Crocco.
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