«C’è molta gente superficiale che prende le cose alla lettera. Ma la vita di un uomo che abbia in sé qualche valore è una continua Allegoria. Solo pochi occhi possono capire il mistero della sua vita. Una vita figurativa, come nelle scritture sacre, che molta gente non può riuscire a capire, non più di quanto possa capire la Bibbia scritta in ebraico. Shakespeare ha vissuto una vita di Allegoria. Le sue opere ne sono il commento» (dalla lettera a George e Georgiana Keats, 18 febbraio 1819).
Primo di cinque figli (George era il secondogenito), John Keats era nato a Londra il 31 ottobre 1795: consumato dalla tisi, si spense tra le braccia dell’amico pittore Joseph Severn («Sollevami… Sto morendo… Morirò facilmente, non aver paura… Sii fermo, grazie a Dio è arrivata») nella casa affittata al 26 di Piazza di Spagna, presso la scalinata di Trinità dei Monti, a Roma, il 23 febbraio 1821. Duecento anni fa, domani. Aveva venticinque anni e sulla tomba che desiderava senza nome e data di morte, nel cimitero acattolico adiacente a Porta San Paolo e all’ombra della Piramide Cestia, avrebbe voluto il semplice epitaffio «Here lies One Whose Name was writ in Water» («Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua»). Severn e un altro amico, Charles Brown, lo fecero invece precedere da poco altro di loro pugno in segno di protesta per l’accoglienza estremamente critica ricevuta in vita dalle sue opere.
Nel 2009 la regista e sceneggiatrice neozelandese Jane Campion – tornando ai livelli espressivi di Lezioni di piano (1993) – gli dedicò un film, Bright Star, che per intensità e riuscita si può accostare a più recenti ritratti biografici su grande schermo – il Leopardi de Il giovane favoloso (2014, Mario Martone) e la Dickinson di A Quiet Passion (2016, Terence Davies) – e che prende in esame il biennio che va dal novembre 1818 al settembre 1820 durante il quale a Hampstead, un villaggio a nord di Londra, si assiste allo sbocciare del legame sentimentale tra il ventitreenne Keats (Ben Whishaw) e la sua vicina di casa Fanny Brawne (Abbie Cornish). Il tutto a partire da Keats, biografia pubblicata nel 1997 e scritta da Andrew Motion (tra l’altro Poet Laureate del Regno Unito dal 1999 al 2009), e dalle lettere del poeta londinese giunte fino a noi, grazie alle quali la sua figura – al di là delle piccole e consuete libertà narrative che ogni adattamento reca con sé – può definirsi come la più fedele possibile, in tutto aderente alla realtà storica. Mentre non si può dire altrettanto per il personaggio di Fanny, che ha necessitato di una fase di definizione e scrittura più laboriosa, non essendosi purtroppo conservate le lettere all’amato. A seguire, una prima versione del montaggio della durata di tre ore e mezzo, ridotta alle poco meno di due ore definitive dalla regista con l’aiuto del montatore Alexandre de Franceschi.
Come detto, molta parte della sceneggiatura – curata dalla stessa Campion – trae la linfa dalle missive di Keats, che permettono quindi la presenza di interventi come quello seguente, in occasione della “lezione” di John a Fanny: «Un poeta non è affatto poetico. È la cosa meno poetica nell’esistenza. Non ha alcuna identità. Occupa continuamente il corpo di un altro, il sole, la luna…» […] «Potete dire qualcosa dell’arte della poesia?» «L’arte della poesia è una carcassa, un’impostura. Se la poesia non nasce naturalmente come le foglie su un albero, allora è meglio che non nasca affatto» […] «Ancora non so come comprendere una poesia» «Una poesia deve essere compresa attraverso i sensi. Lo scopo di tuffarsi in un lago non è immediatamente di nuotare a riva ma restare nel lago… assaporare la sensazione dell’acqua. Non si comprende il lago, è un’esperienza al di là del pensiero. La poesia lenisce l’animo e lo incita ad accettare il mistero» «Io amo il mistero».
Il film è letteralmente aperto e chiuso dall’immagine di un filo: prima bianco, poi nero. In definitiva, un legame che tiene insieme – per comporle in qualcosa d’altro – diverse parti di tessuto (come i brani della propria esistenza). Si potrebbe provare a chiamarlo cuore, quello «spron» che «quasi mi punge» (come ne scrisse Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Non «fastidio», ma risorsa, che fa di un essere umano quel che è. Perché anche al singolo io possa esser dato di cogliere che «una cosa bella è una gioia per sempre», che «cresce di grazia» e «mai passerà nel nulla». E, quindi, di (cercare di) seguire ciò che fa essere più veri, reali, liberi: un criterio originale (e originario) che è in noi (ed è da prima di noi), un amore che muove facendo scrutare, carezzare e tendere l’orecchio alla parete che separa da esso, una «fulgida stella, ferma […] ma non in solitario splendore»… Davvero «il mistero della [nostra] vita».
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