Scrivete su Google “gender fluid” e guardate cosa verrà fuori: nove su dieci sono articoli di moda, marketing, fashion, passerelle, stilisti, abiti. E poi fatevi una domanda: a chi interessa davvero “l’identità di genere”, quel concetto che uno dei due più importanti quotidiani italiani (in un articolo di moda, ovviamente) definisce “libertà di appropriarsi il proprio genere, indipendentemente dal sesso”? I marchi di vestiti, evidenzia uno studio di FutureBrand, hanno maturato un approccio gender-neutral, sempre più visibile nella comunicazione, sui pack di prodotto e nei messaggi. Ma davvero? E pensare che negli anni ’70 esisteva la moda unisex, vestiti uguali per maschi e femmine. Se poi si entra nel territorio della musica rock, si tocca il vertice della stupidità.
Dal prossimo anno i Brit Awards, i premi ai migliori artisti musicali, faranno a meno delle categorie di genere. Il motivo, dicono gli illuminati organizzatori, è rendere “lo spettacolo più inclusivo”. Non ci sarà quindi più il premio per “il miglior disco di una donna” o “quello per il miglior disco di un cantante uomo”. Sinceramente, fatevelo dire da uno che è cresciuto con il rock degli anni ’70, e cioè con David Bowie, Mick Jagger, Elton John, fate ridere. Il genere era già stato abbattuto con la forza di personalità eccezionali, non certo con un ragazzino di vent’anni che si mette le calze a rete con la giarrettiera sul palco. Applausi a scena aperta, anzi standing ovation allora per il chitarrista dei Queen Brian May, che rischia adesso di essere fatto fuori dal music biz. Alla notizia prima citata ha commentato: «È una decisione presa senza riflettere. Ci sono tante cose che funzionano e vanno lasciate così come sono. Sono stanco di chi cerca di cambiare le cose senza pensare alle conseguenze a lungo termine. Alcune idee portano a un miglioramento, altre no».
BRIT AWARDS, FREDDIE MERCURY ERA GENDER FLUID PRIMA DEI MANESKIN
Come si fa ad abbattere la categoria femminile nella musica, dopo che per decenni le donne hanno espresso alcune delle pagine più memorabili della storia proprio grazie alla loro femminilità, alla rivendicazione del loro essere donne, e viceversa? Patetico. E se lo dice uno che ha militato con uno dei simboli dell’omosessualità, della stravaganza eccentrica glam come Freddie Mercury, cosa gli si può ribattere, se non che ha ragione? Anche Freddie Mercury avrebbe avuto qualche problema, dice: «Era un musicista, un amico, un fratello. Veniva da Zanzibar, non era inglese e nemmeno bianco. Ma non importava a nessuno, non ne abbiamo neanche parlato. Non ci siamo mai chiesti se fosse il caso lavorare con lui, se avesse il giusto colore della pelle o la giusta tendenza sessuale. Non è mai successo e il fatto che oggi si debba pensare a tutto questo mi spaventa. Con l’aria che tira, oggi la gente ha paura di dire quello che pensa. Sono convinto che in molti siano convinti che certe cose non vadano bene, ma non osano dire nulla. Prima o poi questo problema esploderà».
Già, viviamo in un regime ideologico che fa uso anche delle armi della legge e della polizia se uno non è d’accordo. I Queen, conclude May, oggi non vincerebbero un Brit Award perché non si metterebbero le calze con le giarrettiere: «Saremmo stati costretti ad avere nella band persone di colore diverso, sessualità diverse, una persona trans. Ma la vita non è così. Possiamo essere separati e diversi». La vita non è così, con buona pace degli stilisti e delle pagine pagate con soldoni per fare pubblicità sulla moda gender fluid. La vita era un Freddie Mercury che da omosessuale ha amato nella sua esistenza una persona sola: la moglie. Gli altri facciano come i Maneskin, manichini manovrati con i fili dalle case di moda.