Stabilità, prevedibilità, equilibrio e certezza regolatoria e fiscale sono le misure richieste a gran voce dagli investitori internazionali: anzitutto a un’Azienda-Paese come l’Italia. “La variabile fiscale gioca un ruolo fondamentale ma l’analisi di questi aspetti va necessariamente condotta in modo interdisciplinare, tenendo conto sia degli aspetti giuridici sia di quelli di convenienza economica, e, in ottica comparata, anche del contesto in cui il nostro Paese compete”. È stato chiaro Alessandro Santoro – professore di scienza delle finanze all’Università di Milano-Bicocca – intervenendo al seminario “Perché investire in Italia? Opportunità, lacci e lacciuoli”, organizzato presso l’ateneo milanese dalla Fondazione per la Sussidiaretà e dal CRISP (Centro di Ricerca Interuniversitario per i servizi di pubblica utilità), con il contributo di British American Tobacco Italia.
Negli ultimi 4 anni, la multinazionale ha investito nel nostro Paese oltre 845 milioni di euro (quasi 230 nel solo 2018) per l’acquisto di tabacco nazionale, macchinari industriali e in attività di marketing, distribuzione e ricerche di mercato. Con l’obiettivo di raggiungere la cifra di 1 miliardo di euro alla fine del 2019. Con l’acquisizione dell’Ente Tabacchi Italiani S.p.A (ETI), il gruppo British American Tobacco (BAT) nel 2003 si aggiudicò la gara per la privatizzazione dell’ETI, un’operazione da 2,3 miliardi di euro che ha rappresentato uno dei più grandi investimenti mai effettuati in Italia da una società internazionale. E nel risiko globale dei grandi investimenti, “le principali variabili macroeconomiche svolgono un ruolo marginale, molto più importanti sono le variabili cosiddette istituzionali”, ha detto Emilio Colombo, ordinario di politica economica alla Cattolica di Milano. “Tra esse qualità del sistema istituzionale (burocrazia), qualità del sistema legale, equità e funzionalità del sistema fiscale e flessibilità del mercato del lavoro rivestono un ruolo decisivo”.
Non c’è quindi da stupirsi se negli ultimi 5 anni (2013-2018) i flussi di investimento estero in Italia sono stati in media meno dell’1% del Pil. Si tratta, secondo i dati Eurostat, di uno dei valori più bassi tra i Paesi dell’Ue. Nello stesso periodo, in media i flussi degli investimenti internazionali volti all’acquisizione di partecipazioni “durevoli” in Spagna sono stati pari al 2,5% del Pil, in Francia all’1,55%, in Germania all’1,8% e nel Regno Unito al 3,7%. “Certamente – ha osservato nel suo intervento Emanuele Cusa, associato di diritto commerciale a Milano-Bicocca – nell’Italia del 2019 continua a non essere favorevole neppure l’ambiente creditizio, nonostante tutte le novità che il legislatore italiano ha messo in campo dal 2012 (Governo Monti) a oggi (da ultimo, con il c.d. Decreto Crescita) per consentire alle PMI italiane di finanziarsi non soltanto ricorrendo al mondo bancario”.
Pertanto solo un giusto mix tra qualità delle eccellenze italiane, un dialogo aperto e costruttivo tra industria e Istituzioni, assieme a una corretta pianificazione di misure fiscali e regolatorie possono determinare la capacità di attrazione di nuovi investimenti, o dare continuità a quelli in corso.