Bisogna volere molto bene alle canzoni, trattarle con tenerezza e soprattutto rispetto, perché non appartengono neanche all’uomo che le ha scritte venti, trenta, cinquanta anni fa. Lo disse proprio Bruce Springsteen una volta: “Le canzoni che ho scritto conoscono più di me di quanto io conosca loro”. Perché le canzoni sono un oggetto misterioso. Certo puoi lavorarci sopra con certosina e maniacale attenzione anche per anni, ma ci sarà sempre un elemento che sfugge. Si chiama amore, un amore che non ti deluderà mai perché sgorga come da una sanguinante ferita impossibile da cicatrizzarsi se rimani vero ad esse, a te stesso e al pubblico che le ha condivise e inevitabilmente fatte sue. Succede quando nel tuo cuore c’è una irrequietezza, una impossibilità a sentirti mai soddisfatto, ed è ad esse che dovrai tornare per riconnetterti a quel cuore pulsante.
Lo si è visto in maniera chiara nei due concerti di Dublino di Bruce Springsteen a cui ho avuto la fortuna di assistere, il 5 e il 7 maggio scorso. Andato senza particolari aspettative, sono rimasto travolto dalla potenza devastante di un uomo che sembrava una tigre furiosa liberata dalla gabbia in cui era rimasto negli ultimi sette anni, per pandemia e per altro. “Quanto tutto questo sarà finito” aveva detto “faremo un accidenti di festa”: ha mantenuto la promessa.
E allora canzoni arcinote nella nostra memoria hanno assunto forme e angolazioni diverse, come il riff immortale di Thunder Road sostenuto da cinque fiati come fosse stata una orchestra di Broadway ha rivelato nuove armonie, nuovi spunti rispetto a una canzone scritta da un ragazzino che non sapeva chi era. Oggi quel ragazzino è un uomo quasi anziano che ha portato a casa la sua missione: testimoniare la verità e la bellezza della nostra ferita, che “l’amore è una cosa vera” e oggi si gode questa pace dell’animo raggiunta attraverso sofferenze indicibili, quelle della depressione che avrebbe potuto annoverarlo in un qualche club dei 27. Perché la musica rock non è sesso e droga, è piuttosto una preghiera, ma anche un accidente di party. Lo si è visto nell’epicità sontuosa delle voci gospel, dei fiati soul di una Land of hope and dreams che volava dritta altissima nel cielo e quando Johnny 99 è diventata un tuffo nella black music più scoppiettante con dei fiati debordanti (e quanto è bella Nightshift dei Commodores, un autentico tributo all’anima più black dell’America) . Lo si è visto nella voglia di jammare nel medley She’s the one/Not fade away con lui che gettava in un assolo di armonica infinito ogni briciolo di energia rimasta. E lo si è visto quando Backstreets si è fatta un pianto soffocato e sussurrato, ma incontenibile. Perché la presenza della morte, degli amici morti, dei ragazzi che avevano cominciato con lui ad Asbury Park era fortissima l’altra sera, e chissà quando Terry se ne è andata, con un dolore così forte da farlo piangere. Inevitabile che lui pensi anche alla sua di morte: lo fa ogni persona vera. Roy Bittan si girava verso di lui con un sorriso di tenera commozione tutta la serata, perché questi sono dei sopravvissuti e qualcuno si è perso. I vecchi della E Street Band, Garry Tallent, Bittan, Van Zandt e Max Weinberg e Springsteen stesso si stringevano forte tra di loro, scambiandosi sguardi pieni di stupore e riconoscenza: siamo ancora qui e siamo vivi, sembravano dirsi, e non è merito nostro, ma di questa musica.
Sì, sono canzoni vecchie, ma diventano nuove, perché per ogni cosa c’è una stagione, diceva il libro dell’Ecclesiaste coniugato rock da altri eroi.
Anche se può sembrare scontata, No surrender è la intro obbligatoria di questo spettacolo perché dice tutto di una o due generazioni – e che fortuna ha chi è vecchio come me di fare parte di una di queste – che hanno trovato la salvezza in un disco di tre minuti, dischi chi ci hanno fatto imparare più del gelido e cinico nozionismo moralista dei nostri insegnanti di scuola che godevano a punire la nostra voglia di essere giovani. Forse l’abbiamo pagata ad affidarci così tanto a delle canzoni e dovremo sopravvivere con una pensione minima e la carità degli amici, ma ne è valsa la pena. Possiamo svegliarci alla mattina e guardarci allo specchio con dignità, non dobbiamo nasconderci. Ma sì, c’è un prezzo che paghi, inutile fingere, e Springsteen quando guardava dritto negli occhi ognuno sembrava dirci proprio questo: “Non sono un ragazzo, no io sono un uomo e credo nella terra promessa”.
Le chitarre, tre, si sono alternate e unite con violenza inaudita e non volevano smetterla mai: in Because the night, in Kitty’s back, in Candy’s room.
Se la prima serata è stato l’inevitabile momento del riprendere un rapporto seguendo una set list precisa, già la seconda sera, orgoglioso delle sue radici irlandesi, Springsteen ha voluto che Dublino alzasse ancora una volta il suo grido di libertà, quel grido che ha reso questo popolo unico e meraviglioso: un rock tagliato con i suoni di Irlanda, per sputare in faccia alla gentaglia di Wall Street tutto il male che ci hanno fatto e ancora continuano a farci i Bezos e compagnia bella: loro torneranno ancora, puoi giurarci, e allora figliolo trovati una canzone da cantare e cantala fino a quando resisti cantala forte e cantala bene. Dublino ha cantato benissimo tutte e due le notti, erano voci di angeli e quanti ragazzi e ragazze e quanti uomini di 60 e 70 anni con il sorriso stampato in viso e la gioia che spuntava da ogni poro: Springsteen ha fatto quello che non succede quasi mai a un concerto. Ha unito tantissime individualità e ne ha fatto un popolo. Come i grandi leader che hanno liberato la terra d’Irlanda.
Canzoni di lotta e canzoni d’amore, canzoni di festa e canzoni di gioia e canzoni per piangere, perché piangere insieme non è come piangere da soli.
Mentre scrivo queste righe sono a casa mia, sono tornato a Milano e sorrido del fatto che mi ha accolto una pioggia dirompente mentre a Dublino mai. Forse Dio sorrideva davanti a tanta bellezza e lo si è visto in un arcobaleno meraviglioso, l’ultima sera prima che partissi dopo una pioggerella: anche il cielo d’Irlanda applaudiva la bellezza, l’unità, la tenerezza, l’amore che questo mezzo irlandese (che di giorno girava tranquillo nei pub della città quasi fosse stato il John Wayne del film Un uomo tranquillo, tornato a casa a riassaporare le sue radici) e mezzo italiano. Che con straordinaria auto ironia si strappa i bottoni della camicia per mostrare dei pettorali che fanno invidia, ma il senso di quel gesto non è più come da giovane dichiararsi il nuovo santo in città. A me sembrava uno dei goodfellas che si prendeva in giro dopo troppe Guinness.
Poi chissenefrega, nel finale anche lui fa fatica a cantare, ma va bene così: è il più grande spettacolo sulla terra e sarà anche l’ultimo. Per ragioni che non ci competono anche se un sospetto o due li abbiamo, nessuno ha raccolto l’eredità di questi giganti. La ferita del cuore è stata chiusa con le banalità, l’arrivismo, il cinismo, l’avidità che alcuni padri-padroni hanno gettato sui nuovi giovani, poveri giovani.
Noi togliamo il disturbo e dentro di noi ripetiamo all’infinito quelle parole, perché come ha dimostrato in questi concerti, The promised land non è più un sogno irraggiungibile e impossibile: la terra promessa è dentro di noi ogni giorno:
“C’è una guerra fuori che imperversa
Dici che non tocca a noi vincerla
Voglio dormire sotto cieli pacifici nel letto del mio amore
Con una campagna aperta nei miei occhi
E questi sogni romantici nella mia testa”
Questi sogni romantici nessuno ce li toglierà mai, neanche l’intelligenza artificiale di Al.
Alla fine, a 73 anni, Bruce Springsteen si è dimostrato quel padre che non abbiamo mai avuto. Non per colpa loro, ma non potevano saperlo. Non potevano sapere che la vita è bella e non è un peccato sentirsi vivi.
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