C’è un motivo per cui quello che potrebbe essere definito il più bel film dedicato alla musica rock (quantomeno l’unico dove gli attori sembrano davvero musicisti rock quando fingono di suonare) sia ambientato nel 1973. Lo scassato pullman che porta in giro gli Stillwater infatti ha bene in vista sul davanti la targa “Almost Famous Tour 1973”.
Il 1973 è un anno spartiacque nella multicolore storia del rock, un anno che per molti ai tempi significava la fine di quella musica. Si viveva un momento di stasi, di vuoto creativo. I Beatles si erano sciolti, i Rolling Stones sembravano sprofondati in una nebbia di eroina e cocaina, molti dei grandi del decennio precedente (Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones) erano morti giovanissimi. La musica rock non rifletteva più le pulsioni di vita e cambiamento di soli pochi anni prima, ma si dibatteva in una sorta di autocompiacimento. Quello che andava per la maggiore era un ambizioso e narcisistico tentativo di dimostrare chi era il più grande chitarrista, il più grande batterista, il più grande cantante. Ci si ispirava ai compositori di musica classica nel tentativo di apparire maestosi come loro: se non eri tecnicamente “un mostro” non avevi chance. Addirittura un gruppo, gli Emerson, Lake and Palmer, avevano eliminato il feticcio stesso della musica rock, la chitarra, e si erano ispirati direttamente al compositore russo Mussorgsky.
Ma all’appello mancava soprattutto una persona: Bob Dylan. L’artista più influente del decennio precedente che aveva cambiato per sempre il corso stesso della musica rock era dai tempi di Blonde on Blonde, 1966, che non faceva un disco degno del suo nome, a parte John Wesley Harding, e anche quello era uscito nei primi giorni del gennaio 1968. Troppo. Soprattutto non faceva più concerti da quasi otto anni.
I discografici avrebbero venduto propria madre per trovare un “nuovo Dylan” e riempire quel buco. Nel tentativo di crearne uno a tavolino, scelsero due ragazzi che proprio nel 1973 avrebbero fatto il loro esordio discografico.
Se Bruce Springsteen era stato messo sotto contratto da John Hammond, lo stesso che aveva fatto così proprio con Bob Dylan, perché sentendolo cantare aveva pensato ne fosse più che l’erede, il suo prosieguo, Elliott Murphy veniva da un mondo ben diverso. Il giornalista Paul Nelson, su Rolling Stone, li definì entrambi “nuovo Dylan” e se per Springsteen sarebbe stato un battesimo che lo avrebbe portato a conquistare il mondo, per Murphy sarebbe stato il bacio della morte. “Tutti coloro che sono stati definiti nuovi Dylan erano in realtà molto differenti tra di loro perché ognuno di noi rappresentava una sorta di nostalgia per un Dylan in momenti diversi della sua carriera. Qualcuno sa dirmi che somiglianza c’è fra me, Springsteen, Loudon Wainwright, John Prine, Steve Forbert o anche oggigiorno, Jake Bugg? Nessuna. Quando stavo registrando Aquashow ascoltavo Loaded dei Velvet Underground e Changes di Bowie e Clapton era il mio eroe della chitarra. Rimasi davvero sorpreso quando si misero a definirmi nuovo Dylan e fu un punto di partenza terrificante per il mio disco successivo” dice Elliott Murphy.
Murphy era ben cosciente del periodo storico che stava vivendo: “Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin erano tutti morti e quando cantavo nel ritornello del brano Last of the Rock Stars “rock’n’roll is here to stay but who will be left to play?” non volevo essere ironico, ma piuttosto avevo paura che tutto quel mondo potesse finire prima che io riuscissi a farne parte.”
In un certo senso anche Springsteen aveva paura che quel mondo finisse e non potesse entrarne a far parte. Alla musica rock sin da quando era ragazzino aveva dedicato tutta la sua vita, sfiancandosi e ammazzandosi su ogni palcoscenico possibile, che fosse una lercia bettola o un club elegante, tentando ogni carta possibile: dal rock’n’roll più ballabile al guitar hero. Ma in lui c’era più che mera apparenza. C’erano storie incontenibili che gli sgorgavano dentro solo osservando la realtà in cui era cresciuto e che, adesso, 24enne, lo circondava: le strade di Manhattan e quelle di Harlem, i perdenti e gli sconfitti, il grande mare dell’America con le sue contraddizioni, un sogno che non voleva permettere si spegnesse.
Registrato in un paio di giorni nel giugno 1972, dopo aver ottenuto un contratto con la stessa casa discografica di Bob Dylan, la Columbia, Greetings from Asbury Park contiene troppe idee per un semplice lp. C’è tutto e di più, al suo interno, tanto che non si riuscì a dargli la forma giusta. John Hammond rimase deluso dal fatto che nel disco non ci fossero solo lui e la sua chitarra. Il presidente della Columbia Clive Davis storse il naso perché non trovò un possibile singolo di successo e lo rimandò in studio. Springsteen se ne uscì con due possibili hit, Blinded by the light (che infatti ripresa dal gruppo inglese Manfred Mann’s Earth Band arrivò in cima alle classifiche e Spirit in the night.
Blinded by the light era pure un non velato uso dello stile lirico torrenziale di Dylan, con un attacco epico per la cui composizione Springsteen si dovette affidare a un dizionario delle rime: “Madman drummers bummers Indians in the summer with a teenage diplomat In the dumps with the mumps As the adolescent pumps his way into his hat With a boulder on my shoulder Feelin’ kinda older I tripped the merry-go-round”.
Murphy, invece, il cui stile vocale ricordava più David Bowie che Dylan, aveva sì la stessa dimestichezza con l’uso delle parole ma senz’altro una profondità culturale più elevata del suo collega: “Aquashow – il suo primo disco uscito nello stesso 1973 – simbolizza la fine dell’era d’oro del rock nello stesso modo in cui The Great Gasby segna la fine dei ruggenti anni 20 e la morte di Marilyn Monroe svela il lato oscuro e nascosto del glamour hollywoodiano” dice il cantante.
Lo Springsteen dell’esordio suona come un Bob Dylan della classe operaia: melodie folk arrangiate per una band elettrica con pianoforte e organo più pause di sassofono rock & roll in stile anni ’50, sormontate da chitarra acustica e una voce roca che canta testi pieni di immagini elaborate, persino esagerate. Ma mentre Dylan esprimeva un tono cinico e stanco del mondo, Springsteen era esuberante. Le sue scene di strada potevano essere inquietanti e tragiche, come lo erano in Lost in the Flood, ma erano anche intrise di romanticismo e di un’energia giovanile. In Asbury Park c’è il ritratto di adolescenti sicuri di sé, ma travolti dalla scoperta del mondo. E’ ricco di senso dell’umorismo e attenzione attenta ai dettagli. Le canzoni sono spesso sconnesse e beatamente incoerenti, ma hanno doti che lasciano un segno nel panorama di quel 1973, come For you, il ritratto di una ragazza che vuole suicidarsi.
Growin’ Up è una ballatona folk che racconta della sua giovinezza nel New Jersey, le strade, lo sballo e l’abbandono della scuola, tutto quello che in seguito avrebbe usato per il suo storico album Born to Run. E che queste canzoni fossero ottime, lo dimostra che questo brano venne inciso anche da David Bowie, seppure lasciato nel cassetto. Lost in the Flood è la prima potente epopea di Springsteen, immagini dell’apocalisse, un veterano del Vietnam “apostolo del Bronx”, Jimmy il santo, ubriaco di sangue, vento e fuoco che consumano tutto ciò che era una volta. La conclusiva briosa e spumeggiante It’s hard to be a saint in the city lascia presagire i tormenti di chi si prende la briga di diventare una rock star: me lo lasceranno fare? Sarò onesto nei confronti della musica stessa?
Aquashow invece è il figlio di Blonde on Blonde, ma con l’inclinazione poetica da strada di Lou Reed. E, come nel caso di Springsteen e di tutti i 24enni armati di penna, carta, chitarra e armonica, ha molto da dire. Murphy possiede una lucidità figlia della lettura degli scrittori americani, da Fitzgerald a Hemingway, la capacità di percepire il momento storico, incluso il disfacimento della famiglia americana in How’s the Family e White middle class blues e dei suoi miti (“Marilyn Monroe è morta per i nostri peccati”). In Hangin’ Out, Scrapbook Graveyard e Last of the Rock Stars dipinge l’immagine di una gioventù diseredata alla ricerca ma allo stesso tempo autodistruttiva. Con la presenza di Frank Owen al pianoforte anche in Highway 61 Revisited di Bob Dylan, le musiche sono brillanti e impattano fortemente, un suono scarno e diretto che ne fanno tutt’oggi un classico minore.
In una recensione per Rolling Stone nel luglio 1973, Lester Bangs salutò Springsteen come “un nuovo artista audace che si distingue dai suoi contemporanei con una scrittura che ha un significato serio e mette in mostra il suo dono disinibito per testi verbosi e sovraccarichi e schemi di rime”, mentre sempre su Rolling Stone, Paul Nelson descrisse il disco di Murphy come “il miglior Dylan dal 1968”. Nessuno dei due dischi nonostante l’accoglienza critica in grande stile ebbe successo. A epitaffio di questa storia, restano le parole di Elliott Murphy: “Se fossi diventato una star come Springsteen sarei morto e se Springsteen non fosse diventato la star che è sarebbe morto. Ognuno di noi ha il suo destino, il suo ruolo da compiere”. In ogni caso, Springsteen e Murphy, che ne fossero consapevoli o no, avevano salvato il rock’n’roll.
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