Sono passati pochi giorni dall’attentato alle Twin Towers e un uomo incrociato sulla spiaggia del New Jersey, dove Springsteen è nato e vive, gli grida: “We need you!”, abbiamo bisogno di te! È lo stesso rocker che racconta l’episodio e la domanda che può sorgere è: come mai questo appello lanciato al Boss (anche dalla stampa in quei giorni drammatici) non sia stato rivolto, per esempio, a Bob Dylan, cioè ad una icona della musica “militante” americana? Aspettando una risposta che (forse) non arriverà mai, perché partiamo da questo episodio mentre si celebrano i 40 anni dalla pubblicazione di “Born in the U.S.A.?
Semplicemente perché quell’evento tragico è stato per Springsteen una svolta umana e artistica dopo i fasti del successo mondiale che ebbe quell’album quindici anni prima: “Dov’ero io quell’11 settembre? Davanti al televisore, come tutti, appunto. (…) Dieci, quindici miglia da casa mia (…) le torri erano sempre lì, fino al giorno in cui guardavi dalla loro direzione e improvvisamente non le trovavi più. Qui nella contea di Monmouth, dove vivo, abbiamo avuto 150 morti. Conoscevo i loro mariti, le loro mogli, i loro figli. Nelle settimane successive, guidavi verso la spiaggia, passavi davanti a una chiesa e c’era un funerale al giorno”.
Famoso ormai da quasi vent’anni, simbolo rock della magmatica terra nordamericana, star mondiale dopo la pubblicazione di “Born in the U.S.A.”, dopo un altro hit come “Born to run”, questo song writer che alternava il rock a denominazione di origine controllata, raccontando la vita dei giovani del post Vietnam e il loro scontro con il lavoro quotidiano e i rapporti famigliari, e il folk alla Woody Guthrie, ispirato dalla letteratura della prima metà del Novecento americano, dalla cattolica Flannery O’Connor all’epica proletaria di John Steinbeck, attirato quindi dalle contraddizioni dell’America più profonda, Springsteen che viveva la sua arte in una dimensione individualistica e locale, scopre nella distruzione terroristica di persone e cose, una dimensione “comunitaria”.
Ancora parole sue: “Una settimana dopo l’attentato scrissi “Into the fire”, per il Telethon benefico, ma al suo posto cantai “My city of ruins” che avevo scritto in precedenza: dopo la strage nelle torri aveva acquistato un significato nuovo (…) Per i testi di “The rising” ho fatto tutto l’opposto di ciò che avevo fatto con “The ghost of Tom Joad”, un disco i cui testi sviluppano lunghi ed elaborati racconti, densi di dettagli e caratterizzazioni precise. In quei casi, così come era successo per “Nebraska, quando la band prova è come se ne “schiacciasse” i testi. Non funziona: il rock e quel modo di scrittura non riescono a stare insieme (…). Così con “The rising” ho tentato una strada diversa perché volevo un disco profondo ma anche eccitante, visto che avevo di nuovo con me la E-Street Band dopo tanto tempo”.
Ecco la svolta. Non più il rock’n roll puro a stelle e strisce o il folk rarefatto: per raccontare il presente, il dramma del presente, come risposta all’appello popolare, per accendere nel canto all’unisono una luce di speranza, quel “rialzarsi” del titolo, Springsteen si affida al gospel, al canto religioso che ha temprato gli afroamericani schiavi.
“The rising”, pubblicato nel luglio 2002 è un capolavoro dove i testi si trasformano in preghiera trasportata dalla potenza evocativa della musica. Non è più l’inno rabbioso, cresciuto nell’equivoco di “Born in the U.S.A.”, ma il riconoscersi parte di un popolo alla ricerca di un senso nella tragedia e Springsteen è il suo cantore: “Credo che non ci sarà un altro Bob Dylan, non ci sarà un altro Muddy Waters; dato che un musicista è fortemente influenzato dal periodo in cui vive (…) ma questa è caratteristica dell’arte (…) ogni artista rappresenta qualcosa di unico, la sua opera è frutto di un’anima particolare e di come quell’anima riesce a comunicare con tutte le altre anime: è questo che lo rende speciale. Si possono sempre produrre delle note, dei gesti, dei suoni: se non c’è un motivo profondo, suona vuoto. Non rimane che una nostalgia: tutto ciò che impedisce al tuo lavoro di vivere una vita piena al presente. Io faccio il musicista per cercare e trovare i miei fratelli e sorelle”.
Ritorneranno i tempi dei figli d’America dal fronte, questa volta in Afghanistan, alla ricerca dei terroristi e Springsteen lo documenterà con l’amaro “Devils & Dust”.Da buon elettore del Partito Democratico vivrà una stagione di entusiasmo con l’amico Barack Obama al potere; entusiasmo che scemerà già al secondo mandato sotto la crisi economica dei “subprime”, con una ondata di disoccupati. Il Boss è sempre sul pezzo e “Wrecking ball” del 2012 nel cantare la sofferenza sociale recupera quel sentimento religioso che lo contraddistingue sempre più: “Il disco prova a rispondere alle domande che pongono gli ultimi versi della canzone d’apertura “We take care on our own”: dove sono gli animi compassionevoli? Dov’è il lavoro di cui ho bisogno? Dov’è lo spirito che regna su di me? Dove sono gli occhi che vedono? (…) Ci prendiamo cura di noi stessi?”.
L’era di Trump al potere lo vede protagonista per un intero anno a calcare il palcoscenico teatrale di Broadway con sold-out quotidiani a ripercorre in solitaria (accompagnato solo dalla moglie) la sua vita attraverso le canzoni, concludendo ogni volta recitando il “Padre Nostro”: “Non ho mai creduto che la gente venisse ai miei spettacoli (…) perché viene detto loro qualcosa. Ma credo che vengano perché gli siano ricordate delle cose. Per ricordare chi sono, nella loro più grande gioia, nei momenti peggiori, quando la vita ti sentire pieno. È un buon posto per entrare in contatto con il tuo cuore e il tuo spirito. Per ricordare chi siamo e chi possiamo essere collettivamente”.
La pandemia arriva con il cambio di potere, Biden vince su Trump, ma il popolo deluso da entrambi gli schieramenti sembra aver perso la voglia di ricominciare: nel 2021 invitato a fare da testimonial per uno spot di una marca di automobili durante un’altra epica notte del Superbowl, in cui praticamente tutta l’America è davanti alla Tv, Springsteen coglie l’occasione e inventa l’ennesimo messaggio di rinascita:
Occorre ritrovare un centro e Il Boss vestito da cowboy lo indica entrando pensoso in una bianca chiesa al confine tra Kansas e Nebraska, una croce di legno adagiata su una bandiera a stelle strisce: “il centro è stato un posto difficile da raggiungere tra la nostra libertà e la nostra paura. (…) Abbiamo bisogno del Centro, the middle! In questo mondo, il mondo di Dio, nessuna verità infallibile risiede in un solo uomo. C’è solo una verità, la verità di Dio, ed è una verità di profonda indagine, umiltà di fronte ai fatti ed è fondata sulla fede, sull’amore e sul rispetto per i propri vicini e per il proprio Paese. Preghiamo tutti Dio di avere la forza di vedere chiaramente con la nostra mente, il cuore e gli occhi e che possiamo tenere alta la nostra fede, umilmente e al servizio del nostro Paese e della verità”.
Fine del viaggio (per ora). Ma quanta strada ha fatto il rocker che 40 anni fa urlava “Born in the U.S.A.”!
P.S: Per stendere questo articolo (nei virgolettati) l’autore si è avvalso della lettura di:
“Bruce Springsteen. Come un killer sotto il sole” a cura di Leonardo Colombati (ed. 2011) Sironi Editore; “Bruce Springsteen. Abbagliati dalla luce” di Luca Giudici (nuova edizione aggiornata 2023) Zona Music Books.
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