Sostanzialmente, pur avendo avuto la possibilità di ascoltare solo due tracce, sappiamo già tutto o quasi del nuovo disco di Bruce Springsteen con la E Street Band. Si sa ad esempio, per averlo detto lui stesso, che l’idea di fare un disco è nata andando a trovare il suo vecchio amico, membro della sua prima band, i Castiles, George Theiss sul letto di morte. Tornando a casa si è reso conto di essere l’unico membro ancora vivo di quel gruppo di ragazzini. E soprattutto uno degli ultimi di quella generazione, che tante speranze aveva.
Sono anni che Bruce Springsteen sembra essersi rinchiuso in un mondo che guarda continuamente al passato. L’autobiografia, lo spettacolo di Broadway, anche certi passaggi di Western Stars e adesso questo disco, che con la presenza della E Street Band sembra chiudere un cerchio di pensieri, riflessioni, malinconie, presagi di morte. Non è più un ragazzino, ma ha voluto fare un disco che celebrasse la bellezza e il senso di libertà che suonare da giovani in una rock’n’roll band può far scaturire. Non è un caso che abbia incluso ben tre pezzi composti quando era giovane, interpretati adesso come può farlo un uomo di 70 anni.
E’ un disco poderoso, si sente che è stato registrato in pochi giorni, con tutta l’affidabilità che i suoi compagni di avventure per mezzo secolo potessero dargli. Ma emerge, come non la sentivamo danni, la sua voce: deflagrante, potente, declamante. Inevitabile risentire la voce dello Springsteen anni 70, tra Backstreets e Prove it all night. Accade ad esempio nel capolavoro Janey needs a shooter, quasi sette minuti di violenza rock esaltata da interventi di armonica altrettanto violenti. Springsteen dopo quasi 40 anni se la riprende, anche se al sottoscritto, sarà per i tanti ascolti o per ragioni affettive, la versione di Warren Zevon rimane superiore.
E’ un disco di chitarre, forti, appassionate, che recuperano il jingle jangle dei Byrds (e di Tom Petty: Ghosts gioca con il riff della sua Free fallin’), i riff dei tempi della British Invasion, il suono giovane di Springsteen. O i due assoli devastanti di Burnin’ Train, spalancata da un Hammond e da una rullata di batteria che suonano familiari come il sangue nelle nostre vene (e quello di Bob Dylan, perché il pezzo ricorda tremendamente la sua Series of Dreams).
Se Springsteen sa scrivere canzoni d’amore, occasionalmente, quello che la sua musica nei momenti migliori ha saputo dare è un tamponamento nelle crepe della nostra facciata, una diga mentale contro il torrente di tutto ciò che ci preoccupa. In un disco come questo, dove nostalgia e rimpianto, perdita e salvezza fanno capolino ovunque (“Zero’s my number, time is my hunter”; “Big black train comin’ down the track one minute you’re here next minute you’re gone”), queste coppie opposte capovolgono le facce della stessa medaglia di una vita. Springsteen sa dire come è possibile superare la giornata e magari finirla con un sorriso sul viso. Anche se questa giornata è stata una merda e così tante altre (Trump fa capolino in Rainmaker ma soprattutto in due versi di House of thousand guitars, “The criminal clown has stole the throne he steals what he can never own”) ci siamo dentro tutti insieme. E questo fa la differenza, se siamo capaci di percepirlo.
Bruce Springsteen e la E Street Band hanno creato con questo disco, magari in modo inconscio, non lo sappiamo, una testimonianza musicale per la sopravvivenza: il prezzo che esige, la lotta che richiede, ma anche la bellezza che si trova nelle stesse crepe che danno forma alle nostre anime devastate.
Un disco che si apre in modo minimale, One minute you’re here, acustico, potrebbe essere stata su Western stars, ma poi la già conosciuta Letter to you riporta ai glory days e al desiderio, alla certezza che sono quei giorni antichi e andati che vale la pena tenere in vita. Burnin’ train è un rock duro, aperte da scintillanti tastiere Hammond, una performance vocale da paura e la sua chitarra che urla.
E se The power of the prayer non ha niente a che fare con una preghiera religiosa, ma celebra la bellezza di un pomeriggio estivo stesi sulla sabbia, con una intro pianistica che ricorda inevitabilmente Backstreets, House of a thousand guitars, sembra inizialmente un pezzo dell’Elton John migliore, piano e voce, roba tipo Mona Lisas and mad hatters (in realtà ricorda moltissimo Viva la vida dei Coldplay). Poi entra tutta la band e con quelle liriche che ricordano i tempi dei sabati sera in cerca di locali dove ballare, divertirsi, suonare (“We’ll go where the music never ends from the stadiums to the small town bars”) il pezzo si apre a una gioia infinita. Peccato che in tempi di Covid non abbiamo più posti dove andare a sentire la musica.
Resta da dire degli altri due pezzi recuperati nel passato lontano: If I was the priest supera la versione originale, è una esplosione di potenza mentre Songs for Orphans mantiene quell’andamento dylaniano con armonica aggiungendo il sound che caratterizzava Dylan e The Band durante il tour del ’66.
Il disco si conclude con la epica I’ll see you in my dreams, che ricorda all’inizio certi momenti di Western Stars, inizio acustico e poi ingresso della band per una melodia tra country e western. Uno splendido assolo di chitarra tipicamente Jersey sound si alterna a quello di tastiere: “Quando tutte le nostre estati arriveranno alla fine, ti vedrò nei miei sogni, ci incontreremo e vivremo e rideremo di nuovo perché la morte non è la fine”. Mai canzone dedicata alla scomparsa di un amico è suonata più gloriosa e ottimista di questa. In fondo, lui è Bruce Springsteen. E ci sa sempre dare “una ragione in cui credere”.