Gli americani ebbero due epifanie, la prima volta il 9 settembre 1956, la seconda il 9 febbraio 1964. Fu quando Elvis Presley e Beatles apparirono alla televisione americana. Per il primo ci furono 53 milioni di spettatori incollati allo schermo, per i secondi 73. Ogni record di share venne fatto a pezzi e dopo che i Fab4 passarono davanti alle telecamere, tutti i ragazzi americani volevano fondare una band.



Noi italiani ci accontentammo di qualcosa di meno, ma l’impatto fu ugualmente una epifania per coloro i quali ebbero l’occasione di assistere a quella puntata del programma Mr. Fantasy, quasi una cosa da carbonari, in onda alle 23 di ogni martedì, iniziato nel 1981. “Musica da vedere” si sotto intitolava, perché stava cominciando l’era dei video musicali, le cose stavano cambiando ma noi ragazzi italiani che avevamo perso il meglio della musica live per colpa degli auto riduttori negli anni 70 che ci avevano tagliato fuori dal circuito internazionale, ci accontentavamo di vedere i filmati che il conduttore Carlo Massarini mandava in onda. “Mr. Fantasy, fai qualunque cosa, ma portaci fuori da questa tristezza” diceva l’omonima canzone dei Traffic, e così fu. Quella sera ci fu un filmato di Bruce Springsteen, lo conoscevamo già da dischi come Born to run e Darnkness on the edge of town, ma non sapevamo che dal vivo era una potenza devastante. Ma ancora più che quello, la sua presenza sul palcoscenico era selvaggia e libera, era pura e semplice. Non si truccava, non metteva vestiti sgargianti, non era trasgressivo, non era finto insomma come tante superstar ci avevano abituati, annoiandoci a morte.



Era come una spider lanciata a 200 chilometri all’ora che sbandava e a ogni istante sembrava doversi capottare. Ma non gliene fregava niente delle conseguenze. Più di tutto, era felice di essere lì, sembrava uscito da un turno in fabbrica e finalmente poteva togliersi di dosso lo sporco, le umiliazioni e la fatica. Era quello che volevamo anche noi, quello che desideravamo con tutto il cuore: un cantante che finalmente prendesse su di se le nostre aspirazioni, i nostri sogni infranti. E ci riuscì. Ci fece sentire immortali quando lo vedemmo salire sul pianoforte e con un sorriso infinito puntare la chitarra alle stelle girandosi verso ogni lato dove c’erano spettatori, perché lui era lì per tutti, non uno in meno. Poi, saltato giù dal palco, guardando con aria di sfida il sassofonista dall’altra parte, ingaggiava con lui un duello per la vita, dondolando al ritmo della musica che adesso si era impossessata di noi, e di lui, si lanciava di corsa verso l’amico per terminare in ginocchio davanti lui. Era tutto quello che avevamo sognato fosse il rock’n’roll, e adesso lo avevamo visto. Da quel pianoforte non sarebbe più sceso.



Il brano in questione era Thunder road (“E’ una città di perdenti e io me ne sto andando per vincere”) e il concerto era No nukes, Madison Square Garden di New York, il tempio della musica rock. Furono due serate quelle a cui lui prese parte, il 21 e 22 settembre 1979 nell’arco di cinque serate complessive. Molti musicisti, da sempre in prima fila contro il nucleare, avevano promosso una serie di iniziative per alzare il livello di coscienza sul pericolo di quegli impianti, subito dopo l’incidente di Three Mile Island che aveva terrorizzato l’America. Sul palco, alcuni dei sopravvissuti di Woodstock, esattamente dieci anni prima, e altri ancora: Jackson Browne, James Taylor, Tom Petty & The Heartbreakers, Crosby, Stills & Nash, Bonnie Raitt, i Doobie Brothers e Carly Simon. Solo lui, Springsteen, non aveva mai preso parte a iniziative politiche. Veniva da un periodo oscuro, beghe legali, l’impossibilità di fare concerti, dischi pieni di amarezza. Così quelle due sere buttò fuori tutta l’energia contenuta, la voglia di esplodere. Stava registrando un disco che si sarebbe rivelato fondamentale per la sua carriera, The river, e in quelle sere presentò in anteprima la title track. Era ispirata alle difficoltà della sorella Virginia, che a 17 anni aveva avuto una figlia col marito Mickey Shave disoccupato. Virginia era al Madison Square Garden quella sera che fu suonata la prima volta. Non aveva idea che il fratello avesse trasformato la sua storia in una canzone. «L’ispirazione erano lei e mio cognato, è stato bello suonargliela senza preavviso», dice Springsteen. «È venuta nel backstage e mi ha detto solo una cosa: “Quella è la mia vita”».

Nel film uscito nel 1980 solo tre pezzi, The RiverThunder Road e Quarter to Three«Hanno ripreso tutto dicendomi che avrei potuto decidere in un secondo tempo se esserci o meno nel film. Così non mi sono dovuto preoccupare delle telecamere, sapevo che avrei potuto tagliare tutto» dice Springsteen. Adesso quelle serate memorabili sono finalmente disponibili in due cd e un dvd (The Legendary 1979 No Nukes Concerts).

Il Detroit Medley, un mix di Devil With the Blue DressGood Golly Miss MollyC.C. Rider e Jenny Jenny, è un momento epocale con pochi paragoni nella storia del rock. Da allora ogni volta che Springsteen lo ha eseguito dal vivo ogni stadio si è incendiato.

Ma non è solo Springsteen: in quei due concerti la E Street Band era al suo picco. Vale la pena fissare il batterista Max Weinberg durante la parte finale di Thunder Road. E’ una macchina di ritmo mostruosa, che alza le braccia a ogni colpo duro e secco, senza riuscire a fermarsi e poi si blocca perfettamente nel momento giusto. Impressionante.

Quello che non si vede è un brutto episodio, il momento in cui Springsteen vede la fotografa Lynn Goldsmith, all’epoca la sua ragazza, scattare foto  da sotto il palco. Le aveva chiesto di non farlo. La tira su in modo brusco e dichiara: «Signore e signori, la mia ex fidanzata!». Subito dopo la scorta dietro le quinte e chiede che venga allontanata. I due con il tempo faranno pace.

Oggi Springsteen si è pentito di aver permesso di girare pochissimi filmati dei suoi concerti. No Nukes gli ha ricordato ancora una volta che sbagliava a impedire che la band venisse ripresa. «Vorrei che lo avessimo fatto sempre», dice. «È stato un errore. Ero giovane e insicuro. Vorrei avere una ripresa di ogni tour, sarebbe bello».

Ma adesso c’è questo film. Come diceva Jon Landau, se avrete voglia di sentirvi giovani per una sera, guardatelo. E poi guardatelo ancora.