C’è una scena, immortale, nell’altrettanto immortale film Animal House in cui, a una festa, un ragazzo siede sui gradini di una scala suonando in modo mellifluo una chitarra acustica e cantando una melensa ballata folk. Intorno a lui sono sedute belle ragazze che lo ascoltano rapite. Animal House è ambientato a inizio ani 60, quando nei college universitari andava di moda il cosiddetto folk revival (quel movimento musicale da cui uscirà, per dirne uno, Bob Dylan). John Belushi vestito da antico romano come voleva il dress code del party, un “toga party”, ascolta sempre più disgustato, strappa la chitarra di mano al bel giovane e la fa a pezzi. Quindi urla “toga party” e si lancia nella sala dove sul palco un improbabile gruppo R&B denominato Otis Day and the Nights (per gli specialisti, nel gruppo suona il basso un giovanissimo e ancora sconosciuto Robert Cray, futuro asso della chitarra blues) sta incendiando gli animi con due scatenate versioni di Shout, un pezzo degli Isley Brothers, quelli che lanciarono anche Twist and Shout, e Shama Lama Ding Dong, un pezzo scritto per l’occasione. Otis Day non è mai esistito, nel film è interpretato dall’attore DeWayne Jesse e la voce è del cantante reggae giamaicano Lloyd Williams.



Avanti tutta nel tempo. Stadio San Siro, Milano, giugno 2013, finale dell’usuale concerto incendiario di Bruce Springsteen. Il cantante americano attacca Shout e fa muovere all’unisono facendo alzare e sedere 60mila persone. E’ la ripresa in scala amplificata di quella scena di Animal House, dove una manciata di ragazzi e ragazze fanno lo stesso. E’ un momento epico che riporta all’oggi quella voglia di trasgressione e divertimento puro di una generazione schiacciata tra moralismo bigotto e guerra in Vietnam.



Ancora un salto indietro nel tempo adesso a quando il futuro produttore e manager di Springsteen, Jon Landau, scrisse, dopo averlo visto esibirsi, il più bell’articolo musicale della storia del rock. Dentro, fra le altre cose, si cita abbondantemente la musica soul: “Il critico musicale Russell Gersten del Real Paper era il mio migliore amico e insieme davamo un’occhiata ai 45 giri tutti i giorni: Dionne Warwick di Walk On By e Anyone Who Had A Heart, Up On the Roof dei Drifters , Selfish One di Jackie Ross,  Too Many Fish in the Sea delle Marvellettes e uno di quelli che non si dimenticano Heat Wave di Martha Reeves and the Vandellas. In seguito quell’anno una donna speciale chiamata Tamar mi fece conoscere Midnight Hour  di Wilson Pickett  e Respect di Otis Redding e così mi venne l’ispirazione. Un mese di settembre, stavo guidando attraverso Waltham alla ricerca di un nuovo appartamento quando la musica alla radio mi stordì. Accostai sul lato della strada, alzai il volume e chiesi ai miei amici un silenzio di due minuti e 56 secondi e in seguito capii che Dio mi aveva parlato attraverso Reach Out, I’ll Be There  dei Four Tops, un disco che amerò finché vivo. (…) E poi ci sono quelle esperienze individuali così trascendentali  che ricordo come se fossero accadute ieri: Sam e Dave con Soul Together al Madison Square Garden nel 1967: ogni gesto , ogni movimento, l’ordine delle canzoni. Darei qualsiasi cosa per sentirli cantare When Something’s Wrong with My Baby, proprio come hanno fatto quella notte”.



Be’, quel “Sam” è presente nel nuovo disco di Bruce Springsteen, Only the strong survive, in uscita il prossimo 11 novembre, e un motivo ci sarà. Landau e Bruce condividevano le stesse passioni musicali ben prima di conoscersi, ma era così per quasi tutti i ragazzi bianchi americani: la musica soul era una forza liberatrice, comunicativa di bellezza, di libertà a cui era impossibile resistere. Oggi, a 73 anni, Springsteen decide di omaggiarla con un intero disco di classici di quella musica. E’ il secondo disco di cover della carriera dopo The Seeger session, e se allora il musicista americano aveva dimostrato una capacità enorme di far suo un repertorio che non gli era mai appartenuto, questa volta va sul sicuro. Musica soul dal vivo ne ha sempre fatta in grande quantità, mentre in studio ci si era avvicinato solo in un disco come Human touch dove brani soul erano ben presenti  (ad esempio Man’s job).

Di dischi così ne potrebbe fare a dozzine, ad esempio classici del rock’n’roll, come fece durante un recente tour americano in cui quasi ogni sera proponeva un brano storico invitando sul palco l’autore o l’artista che l’aveva registrato (viene in mente Mr. Tambourine Man con Roger McGuinn dei Byrds). E che dire di un disco intero di brani del Creedence Clearwater Revival, il gruppo che ha amato più di ogni altro?

Ha scelto invece il soul, ed è evidente nell’ascoltare il disco che si è divertito parecchio a inciderlo, mettendoci dentro una bella fetta del suo grande cuore. Possiamo dire però che celebrare questa musica, appartenente agli anni 60 e 70 con l’eccezione di Nightshift dei Commodores pubblicata nel 1985 (ma ci sta perché è un tributo a Jackie Wilson e a Marvin Gaye), ha un preciso motivo artistico e politico. Politico, perché l’America negli ultimi anni è devastata da una guerra razziale che neanche negli anni 60 e la musica soul è la musica degli afro americani insieme al blues e al R&B. Artistico, perché da decenni questo modo di fare musica, pieno di sentimento, eleganza, anima appunto, è stato dimenticato, macinato nel tritacarne dell’hip hop diventato sempre più becero e plastificato. E’ una musica scomparsa e grazie a Dio che un artista bianco la riporta all’attenzione.

Il risultato? E’ un disco spumeggiante, suonato alla grande da musicisti straordinari, dove non c’è una sbavatura, dove ogni strumento (e ce ne sono tanti) si incastra alla perfezione e dove il buon gusto regna sovrano. Magari si potrà dire che nessuno può imitare il re del rock’n’roll, Elvis, e uscirne vincente. La traccia che dà il titolo al disco non può avvicinarsi per forza di cose alla potenza devastante e paurosa della versione incisa da Presley. La presenza di Elvis è comunque avvertibile in tutto il disco, che riprende la lezione dello scomparso cantante che negli anni 70 fece sua la musica soul, cominciando con il capolavoro From Elvis in Memphis a Moody Blue, l’ultimo disco pubblicato in vita. Springsteen guarda a quella eleganza immensa, a quel tocco ultra terreno, a quel senso di comunione interazziale che Elvis fece suo con naturalezza perché lo aveva nel sangue e di questo gliene siamo grati.  Altre volte invece, ad esempio quando riprende il classico dei Walker Brothers, The sun ain’t gonna shine anymore, Springsteen si impossessa di quella melodia formidabile e ne rilancia tutta la bellezza sconfinata. E se avremmo preferito che dei Temptations avesse ripreso Papa was a rolling stone invece di I wish it would rain, tutta la ricchezza romantica dell’America di colore esce fuori in Don’t play that song di Ben E. King, un brano da ballare la notte prima di partire per la guerra in Vietnam.

Sono canzoni bellissime, Springsteen paga pegno alla loro ricchezza musicale con una cura formidabile, con arrangiamenti che a volte sconfinano nel Philly Sound (l’uso di archi, tipico di quel genere di soul), altre volte vanno dritti in casa Motown: è il caso della grintosa Soul days che vede la presenza di Sam Moore. Rooms of gloom mantiene tutta la forza esplosiva che vi infusero i Four Tops mentre Do I love you che conoscevamo già è un invito a ballare come se non ci fosse un domani. Splendida l’irruenza soul riprodotta perfettamente di Western union man di Jerry Butler, ex membro degli Impressions che è anche il co-autore di Only the strong survive, che Springsteen cattura con autorità e irruenza. E’ un piacere ascoltare la chitarra funk e l’organo Hammond che dettano i tempi di When she was my girl.

Sono canzoni che esprimono magnificamente cosa voleva dire essere un nero in un’America divisa e in guerra con i bianchi: “As I walk this land with broken dreams I have visions of many things But happiness is just an illusion Filled with sadness and confusion” dice What becomes of a broken hearted di Jimmy Ruffin, fratello di David dei Temptations, e Springsteen paga debito a quella realtà che ancora fa parte dell’America.

Non preoccupatevi se farete fatica a calarvi in questo disco: questa è musica americana, anzi afroamericana, non è qualcosa a cui noi italiani siamo abituati anche se i tentativi di imitazione ci sono stati nel corso degli anni. Questa è storia, queste sono alcune delle pagine più grandi raggiunte in un tempo lontano. Ma soprattutto questo disco è come essere invitati a una festa. Anzi, a un “toga party”.