“Da quando avevo 16 anni suonare dal vivo è stata parte profonda e duratura di chi sono io e come giustifico la mia esistenza sulla Terra. Molto diventa chiaro quando dò il via alla band”. Quasi quel “siamo in missione per conto di Dio” dei fu Blues Brothers, che (tra l’altro) era una dichiarazione molto più seria nonostante le nostre risate al cinema, ma gira intorno a questa riflessione sulla vita ‘votata’ al rock n’roll l’inizio di Road Diary, il nuovissimo e fondamentale docufilm su e con Bruce Springsteen.
Tutto parte dal 2023, cioè dalla preparazione della tournée mondiale, (dopo tre anni di stop forzato per l’ondata epidemica di Covid), del Boss che proprio tre anni prima aveva pubblicato il suo album di inediti “Letter to you” realizzato con il ritorno in studio dell’intera E-Street Band. Springsteen ritornava al suo pubblico dopo la parentesi orchestrale e bucolica di “Western stars”, con il puro e rodato rock n’roll, mettendo a nudo i suoi sentimenti, riavvolgendo il nastro dei ricordi e dei rapporti di amicizie vissute e anche perse per l’entrata a gamba tesa della morte, prendendo coscienza sempre più di questa drammatica ineluttabilità, una realtà a cui è impossibile sfuggire e che per un uomo ormai ultra settantenne è occasione per il ridestarsi di una riflessione sul senso della vita.
Partono le immagini ed ecco l’incedere del Boss che percorrendo uno scuro corridoio arriva nella grande sala prove dove lo attendono i suoi amici, compagni di musica e di vita, ed è un tripudio di abbracci e sorrisi, nel ricordo di centinaia, migliaia di concerti, da mezzo secolo in pista tra avventure sulle strade non solo americane, vuoi su pullman sgangherati, vuoi su enormi camper trasformati in case viaggianti. E un primo groppo in gola ti sorprende nel vedere la partecipazione “comunionale” di una band che da decenni ha segnato un capitolo indimenticabile del rock mondiale e su tutti ergersi la figura carismatica del “capo” dell’iniziatore.
Tutti pronti, quindi, per una nuova avventura con Bruce che incita, corregge, segnala nuove sonorità e arrangiamenti, grazie anche ai nuovi apporti della sezione fiati e di un gruppo di valenti vocalist arrivati direttamente dall’esperienza gospel della “Seeger sessions” di un decennio prima. “Sono ventiquattro anni che mi occupo per Springsteen di video musicali, documentari, concerti dal vivo, ma in questa nuova avventura ho cercato di raccontare un tipo diverso di storia. Una storia più riflessiva”. Sono le dichiarazioni di Thom Zimny, il regista che ha filmato e assemblato tutto il materiale del docufilm: “Quando abbiamo iniziato a filmare Road Diary non sapevo bene quale sarebbe stata la storia. Sono arrivato durante le prove e mi ha colpito il luogo, un vecchio teatro del New Jersey, in una città sonnolenta e fredda . Però quel luogo permetteva di raccontare lo spirito e la fratellanza della E-Street Band, la gratitudine dell’essere ancora insieme. Non ne ho mai parlato con Bruce: solo un saluto e poi siamo tornati alle riprese e lui si è dimenticato della macchina da presa”.
Ed è proprio quello a cui si assiste: le session sono colme di umanità, rispetto e valorizzazione dei vari interventi dei componenti della band, che a loro volta riconoscendo il progetto buono al quale sono stati chiamati a concorrere, si applicano con felice fatica immaginandosi davanti al loro pubblico in concerto.
Nel docufilm non mancano fulminanti flashback, che sono occasione per ricordare i componenti della banda scomparsi (Clarence Clemmons e Danny Federici) ma che non appesantiscono il racconto che è ben focalizzato sulla realtà odierna dei protagonisti.
Si parte con la tournée: nelle prime tappe americane regna la preoccupazione che gli anni di stop abbiano causato sedimenti di ruggine e ragnatele emotive, subito dissipate da una vigorìa musicale, non facile da raggiungere per il nocciolo storico del gruppo che veleggia sulla media dei settant’anni. Ed è un’altra forte emozione ascoltare i diversi brani in scaletta, tutti lì con un senso e con nuove scintillanti sfumature, suonati e cantati da una band che non è più “una rock band più un sassofono”, ma una vera e propria orchestra con una potenza coinvolgente tuttora inarrivabile.
Il docu segue anche l’arrivo della prima tappa europea del tour che parte da Barcellona (quello sarà l’anno dei concerti nell’Emilia immersa nel fango dell’alluvione e del concerto a Monza fino alla fine in bilico per una tempesta epocale che poche ore prima distrusse quasi metà parco della cittadina lombarda). E qui, la regia di Thom Zimny gioca un ruolo molto importante: “Oltre al diario propriamente on the road, con canzoni dal vivo, c’è il racconto dei fan: come si fa a catturare la magia di un concerto di Springsteen senza parlare dei suoi fan? In particolare ho voluto accentrarmi sulla bellezza del pubblico e dei loro volti; sono anche questi gli aspetti che volevamo trasmettere. Li ho incontrati, mi sono seduto al loro tavolo, ho bevuto con loro e ho visto le loro case”.
Si può affermare che sia stata una missione compiuta: l’occhio del regista, pur non perdendo mai di vista lo stage e lo spettacolo sulla scena, ci offre una carrellata di volti e di corpi che ondeggiano tutt’uno durante il concerto. Sono ragazzi, bambini, nonni dai capelli bianchi, genitori che hanno trasmesso la passione del rock empatico del Boss ai loro figli. Tutti belli, con il sorriso tranquillo e semplice di chi è contento di essere lì a partecipare ad un miracolo musicale di amici che sono arrivati a suonare proprio per te. Lucciconi!
I novanta minuti abbondanti del docu stanno finendo ma Springsteen ci riserva un’ultima sorpresa, forse il suo testamento, una specie di esame di coscienza, un manifesto esistenziale, come il tirare le somme della propria vita fin d’ora vissuta. E mentre scorrono le immagini di famigliari, amici e luoghi domestici (anche di una chiesa, verso la fine) si ascoltano queste parole conclusive: “In questo tour mi sono attenuto alla scaletta originale perché raccontava la storia che volevo trasmettere, vita, morte e tutto il resto. Fare musica invecchiando è una cosa interessante e complessa e penso che continuerò finché non giungerò al capolinea. Sono sicuro di una cosa: dopo cinquant’anni di tournée non posso fermarmi adesso. In tournée il tempo passa velocemente e credo che il pubblico non paghi necessariamente per sentire la sua canzone preferita o rivedere il tuo volto invecchiato; la gente paga l’intensità della tua presenza, per vedere la tua vitalità. Questo è il cuore pulsante del mio lavoro! Essere lì e solo lì! Suonare per tutto ciò che il rock n’roll ha da offrirvi, nella vostra città, in questa serata. Voglio lasciarvi così, con una possibilità della vita, fuori dai cancelli, da portare nelle vostre vite, con un sorriso sulle labbra e un senso d’amore nel vostro cuore; un’anima tranquilla e spero anche uno spirito sollevato. Questo è il mio compito (in lingua originale “my job”).
Mi rimane solo un pensiero, una citazione di Jim Morrison:
‘Oh Grande Creatore dell’essere
Concedi un’altra ora per eseguire la nostra arte</i
E perfezionare le nostre vite’”.
E ci starebbe bene un “Amen”.
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