“Ma poi esce anche l’edizione de-spectorizzata, cioè senza orchestra?”. Sapete cosa successe a Let It Be, l’ultimo disco dei Fab4, che dopo 30 anni circa uscì in versione “naked”, privato cioè degli arrangiamenti orchestrali inseriti da Phil Spector. Detto che Phil Spector comunque non è Ron Aniello, ma un genio della musica, Western Stars non uscirà in versione “de-aniellata”. Magari ci sarà occasione nel prossimo tour con la E Street Band di sentirne qualche brano dal vivo in versione “naked” perché questo disco non avrà mai un tour.



Springsteen, o meglio Jon Landau che dai tempi di Born to Run è la mente commerciale e marketing dell’artista americano, hanno escogitato per il nuovo disco una astuta campagna promozionale che ha alzato il testosterone dei fan, in attesa da oltre cinque anni di un nuovo album, con passi astuti. Si sono registrati anche casi di scompensi cardiaci e sessuali (questo da parte delle ex ragazzine che si sono innamorate del Boss dal tempo in cui mise le chiappe in copertina a Born in the Usa, definite ancor oggi le migliori chiappe al mondo di un maschietto).



E’ cominciato tutto con alcune dichiarazioni di Bruce Springsteen in una intervista in cui prometteva un disco ispirato “al pop californiano degli anni 70” (categoria peraltro inesistente, rimandiamo a Wikipedia per capire che musica andasse di moda in California in quel decennio) e a personaggi come Jimmy Webb e Glen Campbell, uno dell’Oklahoma e uno dell’Arkansas. Il tutto per l’annunciata presenza di (oddio) archi e orchestrazione.

Gli artisti bisogna conoscerli, lo capirete dopo averne intervistato qualche centinaio come capitato al sottoscritto, sono i più simpatici bugiardi al mondo e il 50% delle volte intervistarli è deprimente come intervistare un calciatore: non sanno cosa dire.



Non c’è nulla del loro modo di fare musica in Western Stars, con buona pace di chi ha infarcito le sue recensioni con riferimenti a quel genere di artisti. Semmai c’è più di Liberace, per chi lo conosce. Sparare influenze a caso è diventato il mestiere preferito dei giornalisti musicali italiani, quando non si sa cosa dire.

Western Stars, a parte l’inascoltabile There Goes My Miracle che è proprio brutta brutta, per l’uso di campionamenti, autotune, drum machine, è invece un classico disco di Springsteen al 100%, e sono belle canzoni, alcune eccellenti. C’è tanto Tunnel of Love (altro disco che meriterebbe fosse reinciso per eliminare gli orribili synth anni 80), c’è anche un po’ di Nebraska, qualche tocco di Devils and Dust, insomma il classico Springsteen solista, che guarda in modo personalissimo, perché non ne è un esecutore rigoroso di quelle musiche, al country e al folk.

E’ un disco semplice e diretto, molto romantico in alcuni casi, non è un disco disperato come qualcuno ha scritto. C’è sempre l’ombra di un sorriso, di un abbraccio, di accettazione nonostante siano tutte storie di perdenti. E’ l’età sicuramente che dà un’altra visione alla vita. Si può sopravvivere anche se si sono fatte un sacco di cazzate, come il songwriter di Somewhere North of Nashville, arrivato in città per diventare una star e finito per la strada senza successo e anche senza la sua compagna. In queste storie, è facile vedere la continuazione, o la versione, in musica, della sua splendida autobiografia. Le tante pagine di desolazione umana, tristezza, trovano qui la logica trasformazione musicale.

In questo disco Springsteen non è il working hero di Nebraska che alla fine della giornata, dura e maledetta, ha bisogno di una ragione in cui credere; non è il migrante di The Ghost of Tom Joad, alla ricerca della terra promessa “al di là del confine”, dietro il filo spinato e il muro. E’ l’uomo solo dell’America (e non solo: dati Istat ci dicono che un italiano su otto non sa a chi chiedere aiuto) del terzo millennio. . Ma è anche uno che ha vissuto la sua vita fino in fondo, sbagliando, soffrendo, ma rimane intatta la sua dignità di essere umano: è un “everyday american hero”

Dall’iniziale Hitch Hikin’, aperta da banjo e chitarra acustica, dal passo folk, al tex mex ballabile e accattivante di Sleep John Cafè, alla splendida Chasin’ Wild Horses (per chi scrive il brano migliore) con violino folk, leggero fingerpickin’ e una melodia affascinante,  ai sapori di Nebraska nella già citata Somewhere North of Nashville, o ancora nella splendida title track con una slide cooderiana in sottofondo, tutto scorre bene. Springsteen canta meglio che mai, intenso, profondo, convinto. Ma poi esplodono gli archi, le trombe, i cori femminili. Esplodono qua e là, non è un accompagnamento continuo per tutta la canzone, e sono esplosioni francamente fastidiose. Esagerate, pompose, sono pezzi da colonna sonora e non centrano nulla o quasi con le canzoni, sommergono ogni strumento (che sono tanti e ben suonati, soprattutto la pedal steel che fa da sottofondo quasi a ogni pezzo). Come i peggiori brani di Elvis. Ad esempio in Sundown, che sembra il Presley più pacchiano. O Liberace. Dovremo farcene una ragione.

Le storie di questi beautiful loser finiscono nel parcheggio del Moonlight Motel, , una chitarra acustica pizzicata in solitudine, ubriachi di Jack Daniel seduti in macchina. Quante volte ci siamo ubriacati nel parcheggio sotto casa, troppo spaventati per salirne le scale? Poi in un modo o nell’altro lo abbiamo fatto, perché a casa ci si torna sempre. Qualcuno attende, e se non c’è più nessuno, c’è ancora traccia della sua presenza. Alla fine Springsteen, come sempre, ha cantato le nostre storie di vita quotidiana e lo ha fatto con la sua consueta e insuperabile umanità.

Adesso, però, se solo qualcuno sapesse dirmi come togliere gli archi e le trombe mentre ascolto il cd…