Lo “scannacristiani” come era soprannominato Giovanni Brusca per la sua indicibile crudeltà (“Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso.

Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”, Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone di Saverio Lodato), autore della strage di Capaci e dello strangolamento e poi dello scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, 15 anni, è stato scarcerato. Ha scontato la pena prevista, 25 anni di carcere, dovrà scontare altri 4 anni di libertà vigilata, secondo gli accordi presi con lo Stato nel momento in cui ha deciso di diventare collaboratore di giustizia, rivelando molti particolari dell’attività mafiosa. Niente di più, niente di meno.



Nonostante questo, l’opinione pubblica ha reagito con veemenza, accusando la giustizia italiana di non fare il proprio dovere. Hanno reagito anche i familiari delle vittime (va detto che la legge di cui ha goduto Brusca fu voluta dallo stesso Giovanni Falcone) e diversi politici, dal sindaco di Roma Virginia Raggi a Matteo Salvini. “La possibilità di riconciliazione esiste per tutti i detenuti, anche quelli che hanno compiuto gesti gravi come Giovanni Brusca” ci ha detto don Roberto Guernieri, cappellano del carcere romano di Rebibbia dove era recluso Brusca. “Si porteranno dietro per tutta la vita la coscienza di quello che hanno fatto, ho visto detenuti scrivere lettere di richiesta di perdono ai familiari e altri togliersi la vita. Capisco anche chi non vuole perdonare gli assassini di un proprio familiare, per questo bisogna pregare per entrambi, i colpevoli e i familiari”.



Durante la sua detenzione, Giovanni Brusca ha tenuto un ottimo comportamento, facendo volontariato e devolvendo parte del suo piccolo stipendio a associazioni benefiche. Nonostante questo il Tribunale di sorveglianza ha sempre respinto le sue richieste di domiciliari sostenendo che non era chiaro ed evidente il suo ravvedimento. Cosa significa?

Quando si tratta di rimettere una persona all’esterno del carcere per una richiesta di domiciliari, i magistrati hanno bisogno di vedere che ci sia un effettivo ravvedimento della persona, che abbia  rivisitato criticamente la sua vita. Dalle parole e dai comportamenti di Brusca mi sembra che qualcosa ci sia stato, non posso misurare la qualità di questo. Mi pare che qualche segno ci sia stato.



Sono percorsi, questi, che durano tutta la vita, non basta uscire dal carcere per mettersi tutto alle spalle, no?

Certo, specialmente per uno come lui che ne ha fatte di tutti i colori.

Era credente, partecipava alle liturgie?

Lui aveva un percorso a sé stante, non poteva partecipare alle liturgie.

Era sottoposto a regime di 41 bis?

Sì, isolamento totale, non si poteva fare niente.

Solo lei poteva visitarlo?

Oltre a me, un altro sacerdote e una volontaria.

Avrà visto le reazioni negative di tante persone alla notizia della sua scarcerazione, dei parenti delle vittime e della politica. Che ne pensa?

Ho sentito qualcosa nei telegiornali. Lo comprendo.

Però le istituzioni non gli hanno regalato niente.

Certo.

Monsignor Pennisi parlando di Brusca ha detto che “la conversione dei mafiosi non può essere ridotta a un fatto intimistico, deve avere una dimensione pubblica”. È d’accordo?

Assolutamente sì. Soprattutto le persone che sono nella situazione di Brusca devono fare questo passo.

Da parte di Brusca c’è stato?

Ci devo pensare.

Lei è cappellano a Rebibbia da trent’anni, anche lei deve averne viste di tutti i colori. Ci può dire, a noi che un carcere lo vediamo dall’esterno, che esperienza è?

Credo che tutti possano avere una possibilità, se uno veramente si mette in crisi, se uno ha veramente coscienza di ciò che ha fatto. Se non è un duro e un insensibile, la sua coscienza lo accompagnerà, non lo lascerà solo. Penso ci possano essere delle possibilità, ne ho viste.

Ci fa qualche esempio?

Ho visto possibilità di risocializzazione di riconciliazione, detenuti che hanno scritto lettere alle vittime chiedendo perdono, distrutti da quello che avevano fatto. Qualcuno con reati pesanti, anche se non di mafia, si è tolto la vita. Ho visto una serie di situazioni difficili. Ho sentito tante famiglie davanti all’omicidio del proprio figlio dire di non essere disponibili a perdonare. Non credo che bisogna essere leggeri su questo.

Cosa intende?

Quando ti viene tolto un figlio bisogna solo capire, non giudicare. Prego per la conversione degli assassini e delle famiglie, per entrambi. È così che possiamo costruire un mondo migliore dove situazioni di questo tipo non accadano più.

(Paolo Vites) 

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