La terza edizione del festival Internazionale del Film di Roma, ex Festa del Cinema, va in archivio senza molti entusiasmi. Non tanto per una premiazione che non passerà certo alla storia: fin dal debutto, due anni fa con l’allora sindaco Veltroni che se lo inventò, si puntava più su grandi eventi fuori concorso e sui relativi divi in passerella che sulla classica gara, al contrario di Venezia o Cannes dove anche un Leone d’oro o una Palma d’oro a un film asiatico di regista sconosciuto è – almeno agli occhi dei cinefili – più importante del pur celebrato film hollywoodiano girato e presentatro a uso e consumo dei media. A Roma, a differenza di questi festival, di vincere importa poco anche agli interessati – soprattutto se hanno un minimo di curriculum, per debuttanti o autori ancora nel semianonimato è diverso – e alla stampa, che non fibrilla affatto per sapere in anticipo chi trionferà.
Quest’anno i premi maggiori erano sdoppiati: uno del pubblico, assegnato – tramite votazioni con schede all’uscita dei film – a Resolution 819 dell’italiano Giacomo Battiato (la storia di un giornalista che indaga sui crimini dei militari serbi nel corso della guerra in Bosnia) che vince così il Marco Aurelio d’oro e anche un assegno da 75mila euro; mentre la giuria ha optato per Opium War, dell’afghano Siddiq Barmak. Migliori interpreti, tra le attrici Donatella Finocchiaro per Galantuomini di Edoardo Winspeare, tra gli attori Bohdan Stupka per Serce na dloni, di Krzysztof Zanussi.
E proprio i film di Winspeare (italiano, anzi pugliese, a dispetto del cognome che tradisce lontane origini britanniche) e Zanussi (al contrario, come noto ai cinefili, polacco nonostante un cognome italiano) sono tra i migliori – anche meglio dei due Marco Aurelio d’oro – di una rassegna che non ha proposto – come si temeva alla vigilia, grandi film. Da segnalare due bei film anglosassoni, il western Appaloosa dell’attore e regista ed Harris, e Easy Virtue di Stephan Elliot che riprende – con originalità – un film del grande Alfred Hitchock su una storia di famiglia nobile in declino), e qualche italiano interessante (oltre al bel Galantuomini, il tosto e fin troppo “forte” Il passato è una terra straniera, vietato ai minori di 14 anni, e il divertente Si può fare, entrambi appena usciti nei cinema), e i due tedeschi sul terrorismo Schattenwelt e il controverso La banda Baader Meinhof, molto teso cinematograficamente ma forse un po’ ambiguo nella sua evocazione della gesta terroristiche
Poi c’erano una serie di opere interessanti ma che si perdevano per strada (per esempio il polpettone europeo Good con Viggo Mortensen professore universitario succube del regime nazista; ma audace, e veritiera, l’equazione che ne deriva tra eutanasia e nazismo…) o qualche film d’autore arguto ma meno che in passato: su tutti, la premiata coppia Agnès Jaoui (regista) e Jean-Pierre Bacri (sceneggiatore), entrambi interpreti nonché coniugi, con Parlez-moi de la pluie; una buona commedia ma non sui livelli di Il gusto degli altri o Così fan tutti.
Poca roba per un grande festival, che dovrebbe spingere film in cerca di un proprio pubblico e che ha visto trionfi di massa solo per due eventi per adolescenti (High school Musical 3 e l’assaggio di 15 minuti del gotico-romantico Twilight) che lo hanno aiutato enormemente a livello di notorietà. Ma che del passaggio al festival potevano certo farne a meno.
Alla fine, il nostro film del cuore è su tutti quello di Krzysztof Zanussi: Serce na dloni, ovvero Con il cuore in mano: il film, che purtroppo non ha ancora una distribuzione italiana, rivela un inaspettato talento comico di un regista conosciuto per i suoi drammi. E che, dopo alcune prove infelici (come Il sole nero, girato in Italia), mette in scena una commedia nera scataneta, dove si ride e si riflette sull’abisso di disperazione o di abominio che possono albergare nel cuore umano. Nell’incontro tra un ragazzo spiantato e triste che vuole suicidarsi ma non ce la fa e un ricchissimo, cinico e volgare industriale che rischia di morire per disturbi cardiaci, la morte è sempre dietro l’angolo. Il ricco ce la mette tutta per far aiutare il giovane Stefan a suicidarsi, così da poter ricevere come donatore il suo cuore che potrebbe salvarlo. La trovata più geniale del film? Prima del trapianto, per sicurezza, il ricco vuol fare testamento: non per aiutare qualcuno, pensa, ma per provocare il maggior danno possibile al mondo che odia. E come? Dando i soldi ad Al Qaeda (no, ha già il petrolio), a Scientology (troppo banale)? Meglio istituire borse di studio per la diffusione del pensiero decostruzionista e nichilista, «sostenendo uno di quei filosofi che affermano che la vita non ha senso, Dio non esiste, bene e male pari sono…»
Alla fine, il suicida non si ammazzerà più e il ricco si salverà e (forse) cambierà anche cuore (in tutti i sensi). E vedendo una sguaiata rock star, sua pupilla, trasformarsi in dolce cantante d’opera, dovrà ammettere che il cambiamento è possibile per tutti.