Un labrador in cerca del suo padrone. Un giovane che deve riconsegnarlo a chi l’ha perso. E una ragazzina che, oltre al cane, ha perso qualcos’altro e lo cerca disperatamente. Si dipana in maniera alquanto misteriosa la trama di Qualcuno con cui correre, opera seconda dell’israeliano Oded Davidoff tratto dall’omonimo romanzo del connazionale David Grossman (pubblicato in Italia da Mondadori).

Un romanzo che indagava sulle inquietudini dell’adolescenza attraverso la storia di tre ragazzi. Inquietudini che ritroviamo in un film dalle immagini sgranate e dal cuore semplice come si conviene a un film per ragazzi, oltre che per adulti. Assaf è un sedicenne timido e goffo, che cerca la coetanea Tamara (scomparsa all’improvviso), per ridarle il cane ma anche per salvarle la vita, se davvero è in pericolo come ritiene un’anziana suora cattolica (“Ascolta: lei grida!”, gli dice) a lei affezionata. E in flashback vediamo un po’ alla volta le vicissitudini di Tamara, ragazza testarda dalla voce bellissima e dal cuore grande ma apparentemente chiuso, che sta cercando il fratello a sua volta scappato da casa. Per ritrovarlo sarà disposta a scendere, sotto falso nome, nell’inferno di una casa per giovani artisti gestita dal perfido e violento Pesach (personaggio con ascendenze letterarie, tra i Miserabili e Oliver Twist), che droga e sfrutta ragazzi dotati di talento per arricchirsi facendoli suonare per le strade. Tra loro Shai, il fratello di Tamara, è il più bravo e quello che meno di tutti vuol scappare… Ma lei non si dà per vinta. E nemmeno Assaf, che senza conoscerla man mano si affeziona a una ragazza di sente parlare in un modo che lo affascina.

In Qualcuno con cui correre, di cui lo scrittore David Grossmann ha approvato la versione cinematografica e che è stato coprodotto dall’attore e produttore Luca Barbareschi (oggi anche deputato del Pdl), vediamo una Gerusalemme inedita, scandagliata dal regista con stile mosso e nervoso e po’ grezzo ma efficace, stando attaccato ai volti dei personaggi e alle loro mosse. Una città vibrante, caotica, sanguigna, angosciante; ma anche sospesa nel tempo (non c’è terrorismo, non ci sono attentati), comunque lontana da quella di Mea Sharim, il quartiere degli ultraortodossi, né la zona turistica del Muro del Pianto. Bensì una città di giovani che corrono, cantano, suonano, ricchi di talento e di inquietudine. E che sfidano ogni pericolo in forza di un amore, che sia frutto di un legame di sangue o di un sentimento appena scoperto.

Il film di Davidoff, vincitore del premio del pubblico al Festival di Giffoni, rende bene il forte legame fraterno e l’ostinata ricerca della verità di Tamara (interpretata dall’esordiente, ma già molto brava, e giovanissima attrice Bar Belfer), ma anche la rappresentazione delle contraddizioni e dell’anima del popolo d’Israele, che si manifestano soprattutto nell’attaccamento alle proprie radici e nelle canzoni bellissime e struggenti, che parlano di paura, di fuga, di ritorno a casa, di speranza: come recita l’ultima, “la strada è il mio desiderio”.