Adesso il dubbio è se rimane, Nanni Moretti, alla direzione del Torino Film Festival. Due anni fa il suo arrivo fece scoppiare una guerra la sua nomina, tra sostenitori e detrattori (attorno al fondatore Gianni Rondolino); oggi nessuno lo contesta, e chi si ostina a farlo – la mancata scelta dei film italiani – lo fa con motivazioni risibili.
Ovviamente, a Torino i problemi non mancano e le polemiche contro il festival di Roma sono comprensibili, anche se strane in chi ha sempre accettato di confrontarsi (con i suoi film) con le regole dell’industria: da quando è nata la Festa del Cinema – che poi ha cambiato nome – Torino sicuramente perde qualche titolo appetibile in più. Ed è per questo che si è deciso di puntare su un direttore star come Moretti. Nonostante questo, le novità non sono per forza di cose fortissime e si deve puntare anche su film già passati in altri importanti festival internazionali (Toronto, Cannes, Berlino, Sundance…).
Ma ai cinefili torinesi interessa poco, e anche ai media e agli sponsor, che aumentano progressivamente. La 26ma edizione (21-29 novembre) è partita forte, con l’anteprima italiana (era già passato a Londra) di W di Oliver Stone, il film sull’ex presidente George W. Bush. Film controverso, che ironizza non poco sul presidente americano uscente ma in fondo ne dà un ritratto più assolutorio rispetto a tante accuse scontentando così molti commentatori che si aspettavano un duro pamphlet alla Michael Moore.
Oliver Stone, come già nel film su Nixon di qualche anno fa, punta su una rilettura personale ma credibile, artistica ma documentata che parte dai vizi di gioventù (l’alcool, i divertimenti eccessivi) e si gioca molto sul rapporto con il padre George, che gli preferiva il fratello Jeb e vedeva in lui la pecora nera, scapestrata e poco intelligente della famiglia. Da presidente, protagonista di un’ascesa cui sembra ostile perfino la famiglia, Bush junior mantiene un’aria naif e grezza (gran mangiatore, pessimo parlatore, rozzo pure con la donna raffinata che lo ama e lo sposa) in fondo simpatica.
E sulla risposta al terrorismo, se è evidente la critica del regista alla guerra in Irak le responsabilità maggiori vengono addossate allo staff, a partire da un diabolico vicepresidente Cheeney, per proseguire con un inaffidabile Rumsfeld e un’inadeguata Condoleeza Rice (mentre l’unico “buono” è Colin Powell), con il presidente costretto a prendere decisioni sulla base di prove false. Non tutto storicamente sarà esatto, ma l’immagine di repertorio in cui applaudono al suo discorso di entrata in guerra in Irak i suoi “nemici” Ted Kennedy, Hillary Clinton e John Kerry ricorda quali fossero all’inizio i sentimenti sul conflitto in America. Ben diversi da oggi.
Soprattutto, Oliver Stone sceglie la carta rischiosa ma affascinante di rendere cinema – e in certi momenti, grande cinema: alcune “licenze poetiche” arricchiscono il personaggio di note di umanità e di debolezza che ne fanno un personaggio interessante – quello che è ancora cronaca. Ognuno poi la pensi come vuole sugli otto anni di G.W. Bush alla presidenza degli Stati Uniti. Ma il film fa centro.
Ma se W è un ottimo film, addirittura un capolavoro è un altro titolo presentato fuori concorso a Torino: Katyn di Andrzej Wajda (regista di film come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro, Danton), sul massacro stalinista di decine di migliaia di soldati polacchi durante la seconda guerra mondiale. Sarà nelle sale italiane a gennaio.
Con stile secco e incalzante, Wajda rievoca la tragedia di un popolo, invaso due volte – dai nazisti a ovest, dai sovietici ad est – e di cui la classe dirigente viene sterminata. Se i nazisti occupano le università e deportano nei campi di concentramento professori universitari, Stalin e i suoi architettano l’eliminazione scientifica di un’intera leva di ufficiali dell’esercito, di leva o provenienti dalla società civile in posizioni di prestigio. Oltre 12.000 ufficiali, più qualche migliaio di soldati semplici, furono deportati e uccisi uno ad uno con un colpo alla nuca nel 1941, attorno alla foresta di Katyn. Un massacro addossato ai nazisti, nonostante i tanti superstiti o parenti cercassero di proclamare la verità. Qualcuno lo fece, pagando con la vita; altri preferirono il silenzio, per cercare di ricostruire dalle macerie un popolo.
Solo dopo la caduta del muro di Berlino la verità è emersa.
Ma non è solo un documento storico, Katyn. È la rievocazione di un popolo orgoglioso delle proprie radici e saldo nella propria fede (da commozione vedere gli ufficiali andare incontro alla la morte recitando il Padre Nostro), è il racconto delle donne che aspettavano a casa invano mariti, padri, figli e che spesso dovettero scegliere tra la verità e la vita. Un film bellissimo, da non perdere, che riapre una pagina che pochi conoscono e che è fondamentale conoscere.