Un padre violento ma innamorato visceralmente del proprio figlio 14enne, con cui vive da solo. E un amico matto, l’unico che sta con loro. Ma una notte una tragedia cambia il corso di vite già di per sé piene di disagio.
Girato in un Friuli aspro e desolato (ma in realtà non si danno punti di riferimento espliciti: si intuisce solo che siamo nel nord, meglio nord-est, italiano), Come dio comanda mette al centro il rapporto estremo tra un padre e un figlio, che vivono soli e senza prospettive. Rino è disoccupato, beve, è aggressivo e violento, si circonda di simboli nazisti e odia “negri e slavi che vengono a rubarci il pane di bocca”; soprattutto, impone al figlio Cristiano, di 14 anni, un codice fatto di odio, onore e vendetta, di culto del loro rapporto e di volontà di replicare a soprusi veri o presunti. Però Rino ama davvero il figlio, anche se è un amore malato, chiuso, possessivo. Il ragazzo è timido, emarginato a scuola, ma nel rapporto con il padre – che pure a tratti soffre – si esalta: si picchiano e si adorano, fanno muro contro tutti (a cominciare dall’assistente sociale, che minaccia di togliere il figlio a Rino se non trova un lavoro e non smette “di fare casini”), si cacciano nei guai, guardano con sospetto il mondo. L’unico amico è Quattro Formaggi che, a causa di un incidente con i fili dell’alta tensione nella cava in cui lavorava, non ci sta con la testa ma è affezionatissimo a padre e figlio. Quattro Formaggi è gentile, ama fare presepi con personaggi strampalati, pensa sempre a Dio e ama una pornostar di cui vede ossessivamente un film a luci rosse sognando che si rivolga a lui (con tanto di braccia apposta ai lati della tv, per farsi a”accarezzare” dallo schermo-donna). Ma quando pensa di riconoscere la bionda Ramona Superstar in una ragazzina, compagna di classe di Cristiano, iniziano i problemi per tutti. Una tragedia manderà in pezzi il fragile equilibrio del terzetto. Soprattutto, Cristiano guarderà al padre con dolore e sgomento.
Il 13° film di Gabriele Salvatores riprende un romanzo di Niccolò Ammaniti; ed è la seconda volta che accade, dopo il bel Io non ho paura. In questo caso l’esito è meno felice, diseguale, non del tutto convincente. Anche se non mancano gli elementi di interesse. In primo luogo, è azzeccato l’aspetto visivo, dove lo squallore dei paesaggi urbani e periferici si somma con l’angoscia di un bosco notturno da tregenda, flagellato da una pioggia incessante che insieme al fango e alla paura di chi ci si ritroverà immerso delineano uno scenario da incubo. Anche la storia è ricca di spunti e in effetti questo rapporto padre-figlio estremo e a tratti scioccante affascina come un abisso vertiginoso, grazie soprattutto alla veridicità delle interpretazioni.
Se di Filippo Timi (intenso, roccioso, inquietante; peccato solo per il tono di voce, non sempre all’altezza della presa diretta) si conosceva la bravura ma per la prima volta il suo ruolo ne esalta lo spessore (e adesso lo aspettiamo nei panni di un giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio), il ragazzino esordiente Alvaro Caleca gli tiene testa con insospettabile energia; due personaggi “sbagliati” ma amati dal regista, che giustamente evita di farne bersagli di un’accusa totale (anche perché nessuno, tanto meno il “bravo” assistente sociale, li aiuta davvero a uscire da quella dimensione alienata e da una vita squallida). Mentre Elio Germano, che non ha bisogno ormai di conferme, disegna un folle un po’ prevedibile ma con tenera umanità. Piuttosto i punti deboli sono in ruoli di contorno, a cominciare da un Fabio De Luigi fuori parte nei panni dell’assistente sociale. Ma i punti deboli di un film, pur apprezzabile e interessante, sono in alcuni snodi improbabili (un’Ipod che continua a suonare per giorni, senza scaricarsi), in alcune scelte discutibili (una famosa canzone di Robbie Williams, già stucchevole di suo, ripetuta in vari momenti della storia con insistenza irritante), in dettagli che non convincono (un 14enne, che pure ne dimostra di più, che sposta da solo pesi insostenibili per un ragazzino; la scena del delitto pasticciata e tirata per le lunghe). Quello che però delude maggiormente è in realtà un mancato apprendimento di temi che avrebbero meritato maggiore sviluppo, dall’evoluzione del rapporto tra i personaggi (delineati all’inizio, le loro reazioni sono un po’ meccaniche; ma il finale sembrerebbe concedere una possibillità a padre e figlio) all’evocazione superficiale di un Dio lontano, assente e distratto di fronte al dolore e che probabilmente non c’è nemmeno.
Un Dio che ci si ostina a scrivere con l’iniziale minuscola, come nel titolo, quasi a fargli un dispetto (forse anche per rafforzare il paragone con un padre che si fa Dio per il figlio, ma che Dio non è), ma che soprattutto ci si limita a nominare invano, di cui si condanna il comportamento.
Ma che nessuno cerca davvero di conoscere.