Questa volta gli italiani, specialisti in recriminazioni, non possono lamentarsi: il festival di Cannes, iniziato il 14 maggio, si è concluso ieri con due premi importanti per altrettanti nostri film. Una premiazione che ha racchiuso il meglio del cartellone dei film in concorso (erano 22 in totale). Non sempre avviene, per cui si può dire che ha lavorato bene la giuria presieduta dall’attore e regista americano Sean Penn e che comprendeva tra gli altri anche Sergio Castellitto.
Erano oltre vent’anni – dal 1987, con la vittoria di Sotto il sole di Satana di Maurice Pialat – che la Francia non vinceva il “suo festival”: e la Palma d’oro a Entre les murs di Laurent Cantet (regista sensibile, apprezzato su due film sul mondo del lavoro: Risorse umane e A tempo pieno) è un premio che era nelle attese di molti commentatori. È la storia di un giovane professore, che desidera un rapporto sincero con i suoi allievi e cerca di imporre il rispetto di regole non accettate dalla classe, con tensioni acuite anche dall’eterogeneità delle provenienze sociali ed etniche.
Ma la serata della premiazione ha visto appunto la riscossa del cinema italiano, con due premi “pesanti” e anche questi abbastanza attesi: il Gran Prix, ovvero il secondo premio, a Gomorra di Matteo Garrone e il Premio della giuria a Il divo di Paolo Sorrentino sono il giusto riconoscimento a due dei giovani talenti più interessanti del nostro cinema. Sono anche due film “forti”, controversi, che hanno fatto parlare anche in tono critico alcuni osservatori della necessità di non portare all’estero solo un’immagine negativa del nostro Paese. Ma è difficile, soprattutto in questo periodo, chiudere gli occhi di fronte all’emergenza criminalità in Campania descritta in maniera apocalittica dal libro omonimo di Roberto Saviano e poi dal film. Certo, non c’è un minimo di speranza e di redenzione: ma tra rifiuti tossici gestiti dalla Camorra per traffici economici, baratro educativo con giovani e giovanissimi in balia della violenza e affascinati dal potere delle armi e omicidi brutali, il film è un affresco su un mondo che esiste. Una violenza oscena, mai contemplata con compiacimento hollywoodiano.
Il divo, premiato con un riconoscimento minore ma comunque importante, è invece film più controverso: stilisticamente moderno e ben recitato (Sorrentino è un ottimo regista, forse in questo momento il migliore in Italia) dal punto di visto storico e politico contiene più di una forzatura, anche grave, verso la storia di Giulio Andreotti, alludendo qua e là in modo inaccettabile a crimini per i quali il senatore a vita è stato assolto e perfino alle stragi del periodo più fosco. Ma il film è anche altro – la rappresentazione di uno snodo drammatico per il nostro Paese: con l’attentato a Falcone, la sconfitta di Andreotti nella corsa al Quirinale e l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro – e meriterebbe un approfondimento a parte, magari con l’imminente uscita (mercoledì 28) nei cinema italiani.
Tra gli altri premiati principali, a parte il “contentino” alla carriera per il grande Clint Eastwood, che portava in concorso il nuovo e apprezzato The Exchange, se il premio a Benicio Del Toro per il fluviale Che di Steven Soderbergh (dura quattro ore e mezza: uscirà nei cinema probabilmente diviso in due parti) è soprattutto un omaggio al guerrigliero argentino tanto amato dai nostalgici di tutte le rivoluzioni – e quanti ce ne sono nel mondo del cinema, anche americano… – un premio che potrebbe passare ingiustamente inosservato è quello per la miglior sceneggiatura a Jean-Pierre e Luc Dardenne per Il silenzio di Lorna. Già vincitori di due Palme d’oro in passato, ancora una volta i due fratelli belgi hanno raccontato un pezzo di realtà (la storia di un’extracomunitaria che sposa un belga per ottenere la cittadinanza) con il loro consueto sguardo di compassione umana. Loro si schermiscono e a volte si irritano quando gli si chiede se sono cattolici, e hanno ragione: degli eredi di Robert Bresson, uno dei più grandi registi della storia del cinema di cui hanno ereditato la moralità dello sguardo e della narrazione, giustamente non sopportano inutili etichette.
In conclusione, Cannes 2008 ha proposto alcuni film artisticamente innovativi: oltre ai film già citati, il cinese 24 City di Jia Zhang Ke e il documentario d’animazione israeliano Walts With Bashir di Ari Folman (sul massacro di Sabra e Chatila del 1982). Mentre non sono mancate le delusioni da registi affermati, da Wim Wenders con Palermo Shooting (stanca riflessione sulla morte) o a Fernando Meirelles con il film di apertura Blindness (versione poco incisiva dell’apocalittico romanzo omonimo di Saramago), dal canadese Atom Egoyan con Adoration allo stesso Soderbergh con il suo Che, “santino” progressista noioso e fuori luogo, da Synecdoche, New York, cerebrale esordio alla regia dello sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello), a La Frontière de l’Aube del sessantottino francese Philippe Garrel. Ma ci sono stati altri ottimi film “medi”, per questo snobbati dai fautori delle avanguardie fini a se stesse, come Two Lovers di James Gray (l’anno scorso era in gara con I padroni della notte, sempre con Joaquin Phoenix come protagonista) e il brasiliano Linha de Passe di Walter Salles e Daniela Thomas, che ha permesso a Sandra Corveloni di vincere il premio come miglior attrice. E sorvolando sui film fuori concorso: perché alla fine, a Cannes, le file e le attenzioni maggiori le ha riscosse il nuovo Indiana Jones…