Dopo il passaggio a Cannes, dove ha vinto il Premio della Giuria, Il Divo di Paolo Sorrentino è uscito mercoledì nei cinema italiani. E non mancherà di far discutere ancora: principalmente è stato finora visto solo da critici e giornalisti presenti al festival francese. E da Giulio Andreotti, “vittima” del film che ne vuole raccontare il mistero, il potere, le malefatte politiche e perfino criminose, nonostante i tanti inutili processi su di lui.
Ma prima di tutto, una doverosa premessa: Sorrentino, regista “progressista” ma anche abbastanza disincantato, alla denuncia privilegia le qualità cinematografiche, il linguaggio moderno e incisivo di un regista di razza. Non è, insomma, Il caimano di Nanni Moretti: più che denigrare il nemico, a Sorrentino interessa fare un gran film. E, bisogna ametterlo, c’è riuscito. Il Divo, peraltro, non è solo un film su Andreotti, ma sul Potere; e comunque non tanto sulle vicende reali ma su un Personaggio che parte dalla realtà biografica per diventare un simbolo quasi astratto di un potente chiuso in un mistero impossibile da risolvere. Il punto è: Andreotti è davvero questo? Per Sorrentino, tutto sommato sì: ne sarebbero prove, oltre all’aspetto inquietante e grottescamente diabolico quell’impassibilità interpretata come cinica assenza di emozioni, l’astuzia di rispondere sempre per battute (folgoranti, bisogna ammetterlo: metà film si regge su frasi celebri del Senatore), i tanti crimini che gli sono stati attribuiti (per la maggior parte dei quali è finito sotto processo, ed è stato assolto alla fine di un lungo calvario; degli altri non è mai stato accusato), su cui evidentemente per Sorrentino non è stata fatta piena luce, tante e tali sono le allusioni.
Alcune gravi, non c’è dubbio: non solo il film si ferma all’inizio dei processi per mafia e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli senza dar conto della dignità di un potente, ma anche molto anziano, che per dieci anni non è indietreggiato di fronte ad accuse anche risibili (il bacio con Riina…) e non si è mai sottratto al giudizio. Ma in un’autoconfessione immaginaria, il regista mette in bocca a Toni Servillo che interpreta (alla grande, come al solito) Andreotti parole che sembrano attribuirgli perfino le tante stragi misteriose d’Italia, il sacrificio di Moro, il delitto Ambrosoli, l’assassinio di Dalla Chiesa e altri ancora (allusioni che già aprivano il film, a ritmo di rock). Delitti giustificati con una tesi terribile: il male serve per fare il bene, e la verità – in cui queste vittime credevano – è invece terribile. «La chiamavano strategia della tensione, e invece era strategia della sopravvivenza». Infine, la corrente andreottiana: Cirino Pomicino, Evangelisti, Sbardella, Lima, Ciarrapico, il cardinale Angelini… Vengono rappresentati in modo inquietante, come fossero gangster (anche se la loro entrata in scena è un pezzo di gran cinema, quasi da western).
Non sono pochi, dunque, gli aspetti del film che non ci convincono (per dirne una: perché il cinema, e le fiction tv, addossano sempre solo ad Andreotti e a Francesco Cossiga, all’epoca presidente del Consiglio e ministro degli Interni, la mancata trattativa con le BR per liberare Aldo Moro, e non ad altri leader dell’epoca come il segretario della DC Benigno Zaccagnini, che aveva altrettante responsabilità politiche, o il segretario del PCI Enrico Berlinguer che sposò anch’egli questa linea?). E riaprire un “processo” mediatico quando quello giudiziario è concluso (non si devono rispettare sempre le sentenze della magistratura?) pare ingiusto.
Eppure, appunto, il film non è solo questo. È innanzi tutto, per chi ama il cinema, un gran film: ed è per questo, non per motivi politici, che è stato premiato a Cannes (dove Il caimano fu snobbato), perché rinnova un genere, sintetizza eventi e periodi storici con passaggi e metafore fulminanti. Ma fin qui, si tratta di “roba” per cinefili. Il valore de Il Divo sta anche altrove. Innanzi tutto, nel mistero Andreotti ci sono squarci di grandezza che suscitano l’ammirazione dello stesso Sorrentino: il rapporto discreto ma affascinante con la silenziosa moglie (commovente la scena in cui si trovano a vedere in tv, alla vigilia del processo, Renato Zero che canta “I migliori anni della nostra vita” e si stringono la mano) ma anche con l’affettuosa segretaria Enea, la concezione della politica e degli avversari di una Prima Repubblica che aveva statisti che oggi non ci sono più («Nenni mi odiava, ma ci rispettavamo e ci stimavamo: oggi non è più così»), la dignità con cui Andreotti accetta l’umiliante sconfitta nelle elezioni per il Quirinale («guardalo e impara come si sta al mondo» dice Sbardella, interpretato da Massimo Popolizio). Sullo stesso Moro, è mostrata come sincera e lancinante la sofferenza per la sua tragica fine: una ferita che non abbandona mai il divo Giulio e che incrina la sua presunta impassibilità («ho vomitato quando ho saputo della sua morte»). Soprattutto, il film potrebbe aprire un dibattito sulla concezione della politica, e su uno snodo fondamentale della nostra storia recente.
Andreotti uomo di compromesso? A un Eugenio Scalfari che con arroganza gli chiede conto delle troppe “casualità” sospette relative ad amicizie chiacchierate o a omicidi misteriosi, Andreotti ricorda che fu lui con l’aiuto del “famigerato” Ciarrapico a salvare l’autonomia di Repubblica da Berlusconi («un editore certo non vicino a lei»), che ne aveva acquistato la proprietà da Mondadori, «cosa che consente a lei di venire qui a rivolgermi queste domande con arroganza…». Solo un esempio su un modo di concepire la propria azione politica sicuramente con le armi del compromesso e della trattativa (ma si potrebbe parlare della sua politica estera considerata filoaraba, e in realtà capace di trattare anche con i palestinesi come nessun altro leader europeo), anche a favore di “nemici” come Scalfari che lo hanno sempre osteggiato.
Ma il film fa riflettere (forse involontariamente) su un fatto ancora più interessante: nell’attacco che la Mafia porta ad Andreotti soprattutto dal 1989 in poi (per le leggi speciali promulgate dai suoi governi) non c’è solo l’omicidio Lima ma in fondo lo stesso omicidio di Giovanni Falcone (che pure nel montaggio del film sembrerebbe far parte dei misteri di Andreotti): fu solo una coincidenza che proprio quel giorno Andreotti fosse vicinissimo all’elezione a presidente della Repubblica, e che l’attentato di Capaci ebbe come diretta conseguenza la sua sconfitta e l’elezione, invece, di Oscar Luigi Scalfaro? Un uomo politico diversissimo da Andreotti, con la fama di onesto, incorruttibile, dotato di saldi principi e pure cattolico “puro” (mentre Andreotti, nel film, confessa di essere «come tutti mediamente peccatore»…). Ma che contribuì non poco, durante la sua presidenza, a creare un clima di divisione, di odio e di distanza tra due blocchi politici: una “guerra civile” strisciante durata 15 anni, di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze.