Alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, che sta confermando i sospetti di un’edizione in tono minore, il cinema italiano è presente in grande quantità. Tanto da tirarsi dietro lamentele e proteste da vari giornali europei (tedeschi e inglesi soprattutto) su una presunta ventata “nazionalista” del direttore Marco Müller e dei suoi selezionatori. Ma è noto che il nostro cinema sta vivendo una fase di buona creatività, che è giusto sottolineare dal nostro festival più antico.

Analizziamo dunque sommariamente i principali nostri film a pochi giorni dalla fine della Mostra, quando deve ancora passare in gara Il seme della discordia di Pappi Corsicato. Gli altri tre titoli del concorso sono stati variamente considerati. Il meno convincente è sembrato Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, tratto dall’omonimo romanzo di Melania Mazzucco: per la prima volta alle prese con una storia non sua ma su “commissione”, il regista turco che vive da trent’anni in Italia ha coinvolto poco pubblico e stampa sul Lido, ma l’uscita nei cinema da domani potrebbe ricompensarlo (l’autore di Saturno contro e Le fate ignoranti ha un suo pubblico di affezionati). Chi scrive ha sempre apprezzato le sue qualità registiche quanto poco amato le sue storie da “Almodovar minore”, con la sua passione per sentimenti forti (spesso gay) e toni melò ma senza la (discontinua) genialità del regista iberico. Stavolta punta su una storia durissima di violenza, dove la famiglia – Valerio Mastandrea è un marito violento (ma molto cattolico…), geloso della moglie da cui si è separato – ne esce a pezzi; una violenza eccessiva (c’è una scena ai limiti della sostenibilità) per una storia che non sembra essere nelle corde di Ozpetek (di cui sarebbe bene invece recuperare il minore e poco apprezzato, ma sincero, Cuore sacro).

Discorso diverso per Pupi Avati: con Il papà di Giovanna il regista emiliano torna a temi e luoghi cari al suo passato (la vicenda parte nella Bologna degli anni 20) ma con un tasso di amarezza e attenzione al reale maggiore dei suoi ultimi, non felicissimi film. Sostenuto da alcuni attori in stato di grazia (in particolare Silvio Orlando e soprattutto la giovane e bravissima Alba Rohrwacher, che a dispetto del nome è un’attrice italiana di grandissimo talento ormai lanciata da alcuni anni), Avati racconta un’altra tragedia familiare ma con un senso di pietas deciso e coinvolgente: Giovanna è una liceale che uccide la sua migliore amica per gelosia; il padre, modesto insegnante dello stesso liceo, diviso tra affetto e sensi di colpa (ha insinuato in lei illusioni pericolose e distruttive), e in sofferenza per un matrimonio infelice, seguirà il suo lungo percorso di espiazione in manicomio. Da segnalare una piccola ma discreta interpretazione di Ezio Greggio, per una volta in un ruolo non comico (ma la sua uscita di scena poteva essere girata meglio), in un film che al cinema (dal 12 settembre) dovrebbe ottenere un meritato successo.

Infine, in lizza per il Leone d’oro c’è BirdwatchersLa terra degli uomini rossi di Marco Bechis, regista italo argentino che stavolta gira in Brasile: accreditato di qualche pronostico favorevole, è la storia di un gruppo di indios guaranì nel Mato grosso brasileiro: un tempo padroni delle loro terre, sono costretti a scegliere tra riserve inospitali e lo sfruttamento dei padroni bianchi. Alternativa che spesso ne comprende una terza, togliersi la vita (altissimo il tasso di suicidi). Il problema è che il film non è un documentario (alla fine capiamo ancora poco della loro realtà) mentre come film di finzione la sceneggiatura latita. E le emozioni pure, anche per chi era pronto a indignarsi per il buon selvaggio vessato dall’uomo bianco malvagio e prevaricatore.

Ma c’è cinema italiano anche nelle sezioni minori. Prevalgono i film autoprodotti, velleitari, fragili o anche frizzanti e sinceri. Il migliore del lotto (ma anche in queste categorie devono passare ancora alcuni titoli) è finora sicuramente Pranzo di Ferragosto, in gara per la Settimana della critica (sezione curata dal sindacato di categoria): opera prima dell’attempato esordiente Gianni Di Gregorio (cinquantenne aiuto regista in alcuni film di Matteo Garrone, il regista di Gomorra che glielo ha prodotto con un budget molto basso), è la storia semiautobiografica di un uomo di mezza età (lo stesso Di Gregorio) che vive con l’anziana madre e che a Ferragosto si trova costretto ad ospitare altre tre anziane signore, rimaste sole a Roma come lui e la sua simpatica mamma, per appianare debiti con l’amministratore e per favore un favore al proprio medico. Le quattro ottuagenarie – attrici dilettanti – sono davvero spassose, le battute e le situazioni surreali ed esilaranti si susseguono a buon ritmo, lo sguardo è tenero e divertito al tempo stesso. Si ride, ci si intenerisce, si esce dal cinema contenti (e dura pure poco, solo un’ora e un quarto). Ai festival non capita spesso. Da ieri però è in 40 sale italiane, quindi il privilegio non sarà solo degli addetti ai lavori veneziani.

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