Si è parlato per tutta la Mostra di un’edizione minore, come ogni anno si è tentati di fare, magari dimenticando altre precedenti non felicissime. Stavolta invece, non si è tratto di un’esagerazione. La 65ma Mostra d’arte cinematografica di Venezia, che si è conclusa ieri sera, per molti giorni ha gettato nello sconforto anche i suoi difensori più accaniti: il concorso proponeva opere appena sufficienti, talvolta interessanti ma fin troppo rigorose se non decisamente noiose, in altri casi semplicemente pessime; e pochi buoni film. Scelte errate di una commissione di selezione rinnovata e forse dai gusti troppo “cerebrali”? Concorrenza crescente di festival come Toronto e San Sebastian (più di quello di Roma, che ha già parecchi problemi suoi)? O una serie di contingenze, dallo sciopero degli sceneggiatori che ha bloccato Hollywood per molti mesi, con grandi film rimandati al 2009, alla crisi di ispirazione di tanti autori, sempre possibile nel campo della creatività



Tutte queste cause insieme. Ad ogni modo, solo in extremis alcuni film (americani) hanno risollevato la selezione, comunque inferiore alle ultime sotto la gestione del direttore Marco Müller (che rimane tra i migliori creatori di festival), in carica dal 2004. Ma anche gli italiani, complessivamente, non hanno sfigurato.



Con queste premesse c’era da temere il peggio, quanto a premi finali. Anche a causa di una giuria dove prevalevano i fautori della “sperimentazione” (e il solo John Landis, regista del mitico The Blues Brothers, esponente di un cinema accessibile a tutti). E invece, il Leone d’oro non è andato a film asiatici o africani, che pochi avrebbero poi visto al cinema, ma all’americano The Wrestler, ultimo film presentato: per il film del giovane Darren Aronofski si dava per sicura l’affermazione di Mickey Rourke (colpa del regolamento veneziano, che vieta di premiare lo stesso film per più di uno tra i premi principali), mai così bravo nel ruolo di un ex campione di wrestling dalla vita rovinata dagli eccessi. Un film violento e disperato, che racconta il disfacimento di un uomo e lo squallore della sua vita toccando momenti di grande commozione. Una storia classica di autodistruzione, come il cinema ne ha raccontate tante, eppure nuova per stile e interpretazioni di ottimi attori (anche Marisa Tomei e Evan Rachel Wood). Altro film americano che lo avrebbe meritato era Hurt Locker di Kathryn Bigelow: ma la regista di Strange Days, tornata finalmente al grande cinema dopo anni di stasi con in mezzo il flop di K-19, ha forse pagato una visione troppo ecumenica della guerra in Irak. Fervente democratica, ha mostrato l’orrore della guerra senza ideologismi, e i suoi soldati bravi ragazzi – guardati con pietà, come pure il nemico irakeno – devono aver indisposto più di un giurato (come qualche critico). Peccato.



Il Leone d’argento è andato all’interessante film russo Paper Soldier di Alexander German jr.: la corsa allo spazio nell’Urss di inizio anni 60 con uno stile a tratti ermetico e filosofico ma affascinante. Uno dei favoriti della vigilia, Teza dell’etiope Haile Gerima, si deve accontentare del Premio speciale della giuria e dell’Osella per la migliore sceneggiatura. Giusto così: pur interessante, la storia di un dissidente nell’Etiopia di Menghistu è il classico film da festival che rischia di piacere solo ai critici più austeri, dimenticandosi del pubblico “normale”.

Come scritto in un precedente articolo, gli italiani si sono difesi bene: a cominciare da Pupi Avati, che con Il papà di Giovanna ha portato alla coppa Volpi come miglior attore Silvio Orlando. Ma la meritava ancora di più la giovane Alba Rohrwacher, nei panni della figlia pazza, sconfitta invece dalla francese (brava anche lei, peraltro) Dominique Blanc, protagonista de L’autre. Tra gli altri italiani ha deluso solo Ferzan Ozpetek, mentre Marco Bechis (il duro La terra degli uomini rossi) e Pappi Corsicato (Il seme della discordia, commedia alla Almodòvar) – con alti e bassi nei consensi – hanno portato al Lido opere non indimenticabili ma dignitose. In concorso c’erano altre opere che sarà bene recuperare quando usciranno al cinema: dall’ennesimo capolavoro del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki (Ponyo by the Cliff on the Sea: la storia di un pesciolina rossa che diventa una bimba per amicizia con un piccolo umano) a due drammi familiari americani: The Burning Plain, con Charlize Theron e Kim Basinger, e Rachel getting married di Jonathan Demme con Anne Hathaway. Senza contare, fuori concorso, la divertente spy story demenziale dei fratelli Coen: Burn after Reading (pur non tra i loro film migliori), con george Clooney e un irresistibile Brad Pitt.

Ma la vera rivelazione è stato l’italiano Gianni Di Gregorio che ha vinto il Premio De Laurentis per la miglior opera prima (trasversale tra tutte le sezioni della Mostra) con il divertentissimo Pranzo di ferragosto, presentato nella Settimana della Critica. Opera prima particolare, se si pensa che Di Gregorio è tutt’altro che giovane: sceneggiatore, abituale collaboratore di Matteo Garrone (era nel gruppo che ha scritto Gomorra), ha 59 anni e arriva tardi, ma felicemente, alla regia. Le sue quattro irresistibili vecchiette, di cui abbiamo già parlato giorni fa, si sono imposte all’attenzione generale.