Il quarto festival di Roma va in archivio con la vittoria, in parte a sorpresa, del primo premio per il miglior film (il Marc’Aurelio d’oro) al danese Brotherhood. Diretto da un regista esordiente (una moda che sta prendendo fin troppo piede) che di nome fa Nicolo Donato, di evidenti origini italiani, il film racconta di un gruppo di neonazisti che, nel paese di Amleto, ne combinano di tutti i colori: sono violenti e picchiatori, in particolare contro stranieri e omosessuali.
Ma il film ha una svolta quando due del gruppo si scoprono attirati l’uno dall’altro: il contrasto neonazisti/gay ha fatto impressione e ha attirato sul film l’interesse della stampa e della critica. Che in larga parte ha apprezzato il film, peraltro certo non il più bello del festival. Strano: la giuria era molto qualificata, almeno nel presidente Milos Forman (il grande regista di film come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Amadeus, Man on the Moon) e nel russo Pavel Loungin (autore del bellissimo L’isola), cui si aggiungevano altri giurati tra cui l’italiano Gabriele Muccino.
Ma a Roma il concorso non è ancora così importante come alla più antica Mostra di Venezia. Però, forse per la prima volta, quest’anno c’era curiosità per chi avrebbe vinto: e stavolta c’era un’opera italiana che lo avrebbe meritato pienamente. Invece a L’uomo che verrà di Giorgio Diritti è stato assegnato “solo” il secondo premio: il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio d’argento. In compenso, ha vinto il premio attribuito dal pubblico. Che mai come stavolta ci ha preso bene.
In L’uomo che verrà si rievocano i tragici giorni del settembre 1944, e in particolare l’eccidio passato alla storia come strage di Marzabotto. In realtà furono più di uno i massacri di civili inermi (moltissime donne e bambini, anche piccolissimi) non solo a Marzabotto, ma in tutta la zona di Monte Sole: circa 770 persone, mentre gli uomini si ritiravano sulle alture con i partigiani non immaginando – non era mai accaduto prima – una simile reazione.
Lasciando agli storici il compito di confermare l’impressione di una sostanziale fedeltà ai fatti, possiamo dire che Diritti, cinquantenne al suo secondo film (viene dalla scuola di Ermanno Olmi, e questa derivazione si riconosce nel suo stile), ha avuto la felice idea di non realizzare il “solito” film sulle malefatte naziste in Italia, con tutti gli stereotipi del caso (ufficiali sinistri ghignanti e caricaturali e così via) quanto calarci nella follia di quel momento storico partendo inizialmente dalla vita semplice e dolente di famiglie che vivono di poco e sembrano temere il peggio da un momento all’altro.
Si affidano alla Chiesa, e a giovani e coraggiosi sacerdoti per essere protetti, ma la furia di quell’ideologia di morte non si fermerà neanche davanti a luoghi sacri. Ma il colpo d’ala del film è affidare il racconto allo sguardo di una bambina atterrita e insieme fremente per la volontà di salvare il fratellino appena nato. E con questa scelta, una speranza quasi impossibile è la parola più sincera di un film oltre tutto caratterizzato da scelte di stile, di linguaggio (L’uomo che verrà è parlato in un dialetto bolognese antico oggi sconosciuto, e presenta i sottotitoli in italiano: a tratti ricorda L’albero degli zoccoli), e di volti – attrici note come Maya Sansa e Alba Rohrwacher accanto a interpreti sconosciuti al grande pubblico – che ne fanno un vero gioiello.
Peraltro, al di là del concorso – che ha laureato migliori attori Helen Mirren per The Last Station e Sergio Castellitto per Alza la testa: due ottime prove all’interno di due opere non convincenti – il festival romano ha presentato una serie di film che vale la pena recuperare quando usciranno in sala.
Accenniamo solo ad alcuni di essi: Up in the Air, diretto da Jason Reitman (che si rivelò con Thank you for smoking e Juno), vede un George Clooney che per mestiere fa il “licenziatore”.
Sempre su un aereo che lo porta di qua e di là dall’America, il personaggio interpretato dalla celebre star non si fa problemi nel tagliare posti di lavoro in aziende in difficoltà, nell’addolcire la pillola ai dipendenti ormai senza lavoro con grande faccia tosta e a vivere solo per vincere una (da lui) molto ambita tessera fedeltà per chi ha accumulato miglia di volo in quantità industriale. Se non che su un aereo conosce una donna che gli fa saltare i suoi schemi: che sia amore? Mentre si snodano altri incontri, rapporti, vicende (come il suicidio di una donna licenziata), avrà una serie di sorprese. Il film è divertente, intelligente ma anche amaro. Merita sicuramente una visione attenta, soprattutto per la capacità che ha il regista – anche nei suoi film precedenti – di oltrepassare la cortina di situazioni apparentemente superficiali con lo sguardo di chi conosce l’umanità.
Sempre in gara, c’è stato il ritorno della tedesca Margarethe Von Trotta con Visions: la storia della santa mistica Ildegarda von Bingen (un’intensa Barbara Sukova). La celebre regista, campionessa del cinema tedesco anni ‘80 (Anni di piombo), ha uno sguardo laico, sembra disegnare la badessa di un monastero benedettino e le sue visioni in una luce più umanistica e quasi “femminista” che religiosa. Ma emerge comunque con nettezza nel film la forza di questa donna straordinaria del XII secolo, che fu davvero anticonformista e “rivoluzionaria” (come santa Caterina da Siena, non le mandava a dire neppure a superiori e vescovi) e che seppe conquistare il diritto ad avere monasteri femminili per non far cadere i colleghi monaci in tentazione.
Peraltro l’opera è fedele, anche nei passi che potrebbero sorprendere di più (come la descrizione dell’amore fisico, mai sperimentato dalla santa), ai testi di Ildegarda. Un film pieno di rigore formale, a tratti anche faticoso per lo spettatore ma rispettoso di una dimensione che la regista non sente sua ma racconta correttamente. Aprendo squarci interessanti sulla lotta tra il desiderio di amare Dio e la tentazione dell’invidia, del possesso, della violenza anche tra le mura di un convento.
Fuori concorso, si sono distinti su tutti due film. Le concert del rumeno Radu Mihaileanu (noto per gli ottimi Train de vie e Vai e vivrai) narra di un direttore d’orchestra del Bolshoi di Mosca che, durante il regime sovietico di Breznev, viene declassato a pulire il teatro in cui si esibiva per non aver cacciato i musicisti ebrei. Ma un fax trovato mentre puliva un ufficio e prontamente trafugato, permetterà all’ex direttore di riformare la disciolta orchestra e andare a dirigerla a Parigi… Non aggiungiamo nulla di più, se non che l’ultima parte – quasi completamente affidata alla musica – è commozione pura, e che nel cast c’è posto anche per la splendida Melanie Laurent apprezzata di recente in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino.
Infine, in un festival che ha vissuto molti momenti di glamour (le passerelle di George Clooney, Richard Gere, i divi di New Moon…), l’evento forse più significativo che ha trasformato il tappeto rosso in una curiosa processione di preti e suore in gran parte di nazionalità polacca è stato Popieluszko: il film dedicato, nel 25° anniversario della morte, al sacerdote che seguiva Solidarnosc barbaramente trucidato dalla polizia del regime comunista dell’epoca, ha un’origine televisiva e una lunghezza (due ore e mezza) che potrebbero allontanare lo spettatore.
Ma dopo un inizio un po’ faticoso, la vicenda appassiona chi ricorda quei drammatici momenti in cui le speranze della Polonia di papa Wojtyla, Lech Walesa e padre Jerzy Popieluszko sembravano inabissarsi. E può insegnare tanto a chi è troppo giovane per sapere. In un mix di finzione di buona fattura ed emozionanti documenti di repertorio (i viaggi di Giovanni Paolo II in Polonia, le manifestazioni, certi momenti della vita del martire che sarà presto beatificato), il film ci mostra un testimone appassionato di Cristo e della libertà dell’uomo. Come per il recente Katyn, sarà compito del pubblico non lasciare malinconicamente vuote le poche sale in cui uscirà tra pochi giorni, il 6 novembre. Passate parola.