Succeda quel che succeda, il 2009, cinematograficamente parlando, è salvo: con The Wrestler, Katyn e il film di Clint Eastwood, Gran Torino, c’è di che discutere fino a dicembre. E se è stata una piacevole riscoperta vedere Mickey Rourke in un personaggio intenso e doloroso come Randy “The Ram”; se un grande maestro come Wajda ha riaperto doverosamente un capitolo che troppi avrebbero preferito fosse dimenticato, quella di Clint Eastwood è un’opera che lascia senza fiato. A 78 anni, e dopo Changeling, erano in molti a prevedere che Eastwood avrebbe scelto espressioni più descrittive o si sarebbe ritirato. Noi non conosciamo i piani di Clint per il futuro, ma una cosa è certa: al momento non c’è nessun’altro nel panorama cinematografico mondiale in grado di competere con lui, come attore e come regista.

Ambientato nella Detroit che patisce la scomparsa delle case automobilistiche, Gran Torino inizia col funerale di una donna, la moglie di Walt Kowalski. Lui ha lavorato per una vita alla Ford, ha combattuto in Corea e non vuole lasciare la sua villetta con la bandiera che sventola sulla facciata, in un quartiere abbandonato dagli americani e ora popolato di asiatici. Walt è un uomo “tutto di un pezzo”, che non ha bisogno di niente e di nessuno e di certo non cerca di essere accondiscendente: disprezza i due figli maschi, per come hanno educato i loro figli e perché sa che lo vorrebbero in un ricovero, rinfaccia al prete che lo viene a trovare la sua inesperienza di fronte alle tragedie della vita, sembra odiare cordialmente i vicini asiatici, che chiama senza timore “musi gialli”. Quando poi il ragazzo di questi, Thao, cerca di rubargli l’unica cosa di cui sembra realmente orgoglioso, la splendente Ford Gran Torino che conserva con cura maniacale, Walt sembra pronto a imbracciare il fucile usato in guerra e farsi giustizia da solo.

Ma la vendetta di una gang di asiatici sul ragazzino (il furto doveva essere un prova di coraggio per essere ammesso) sposta la canna del fucile di Walt, e la direzione della storia. Il rude Kowalski si alza dalla sua veranda dove è solito tracannare birra e fa la conoscenza coi vicini; impara che non sono coreani ma hmong (che vivono tra Cambogia, Laos e Vietnam), fa la conoscenza con Sue, sorella di Thao. Soprattutto inizia a sviluppare un particolare sentimento nei confronti di Thao, facendosi carico dei problemi materiali del giovane, ma anche introducendolo al mondo dei grandi, dandogli delle prospettive, comportandosi insomma come un padre. Ci sono momenti veramente toccanti e delicati nel film su questo argomento, ma la tragedia incombe. Kowalski non vive nel migliore dei mondi possibili e la ricerca della pace interiore, ben evidenziata nei dialoghi con l’insistente pretino, deve fare i conti con una realtà violenta e disumana, davanti alla quale il protagonista sarà chiamato a scelte che non lasceranno scampo.

La vita e la morte, la gioia e il dolore, il dono di sé: tutto ciò è comprensibile solo nel rapporto, ci dice Clint Eastwood. E tutti abbiamo bisogno che continui a ricordarcelo.