Alberto è uno sceneggiatore di mezza età: scrive di cinema, ha una vita personale e affettiva disordinata, sa leggere nelle persone e usa le parole per ammaliare gli altri. Ma è triste, solo, arrabbiato con sé e con il mondo. Angelo è un giovane carrozziere, con moglie semplice e innamorata e due figli (dai nomi improbabili, Airton e Perla), un ragazzino sveglio e una ragazza 14enne problematica e in crisi adolescenziale. Ma in fondo è contento di quel che ha: la sua famiglia e la solidità economica accumulata lavorando tanto – anche arrangiandosi – con la sua officina. In una notte, entrambi vengono colpiti da un infarto: più grave quello di Angelo, ma anche Alberto viene scosso nelle sue poche certezze. Nella stanza d’ospedale in cui cercano di riprendersi, i due malati diventano amici; e si capiscono reciprocamente come nessuno sa fare. Quell’amicizia cambierà le vite di entrambi.
Francesca Archibugi è regista che, dopo i felici esordi a cavallo tra anni 80 e 90 ( Mignon è partita e soprattutto Il grande cocomero) non ha mai mantenuto davvero le promesse. Ha una grande dote, sa scegliere e dirigere bambini e adolescenti come pochi, anche in questo film; e una discreta sensibilità per persone e sentimenti. Da alcuni anni non indovinava più un film, al massimo proponeva qualche spunto interessante ( L’albero delle pere, Domani, Lezioni di volo) ma senza costruirci davvero intorno un film riuscito.
Con Questione di cuore – tratto dal romanzo quasi omonimo (Una questione di cuore) dello sceneggiatore Umberto Contarello, che prendeva spunto da un drammatico episodio della sua vita) – sicuramente il risultato cinematografico è importante e positivo, grazie a una storia semplice e solida (anche se non originale: uno spunto molto simile era nel recente Uno su due, con Fabio Volo) e a interpretazioni con i fiocchi da parte di Kim Rossi Stuart (forse il miglior attore italiano, bravissimo nel rendere la malattia) e Antonio Albanese, ben sorretti anche dagli attori di contorno (c’è anche un piccolo ma irresistibile cameo di Carlo Verdone, mentre altri attori e registi – Paolo Virzì, Paolo Sorrentino, Stefania Sandrelli, Daniele Luchetti – appaiono anche loro nella parte di se stessi ma senza lasciare traccia)., Stefania Sandrelli, Daniele Luchetti – appaiono anche loro nella parte di se stessi ma senza lasciare traccia).
Per la prima volta al centro dell’attenzione ci sono persone adulte, e il racconto di uomini che si scoprono fragili e insicuri al contatto con la malattia è ben descritto. E anche l’idea dell’amicizia tra loro e del dono di tutto ciò che si ha all’amico è ricco di sensibilità (ma anche qui, non si può parlare di originalità: senza svelare il finale del film, sul tema era molto più bello il film danese Dopo il matrimonio di Susanne Bier). Eppure, pur apprezzando brillantezza di dialoghi e di situazioni (la lezione di sceneggiatura di Alberto al ragazzino Airton, il finale toccante affidato ancora a loro due), annotazioni realistiche sull’umano e gentilezza di tocco, rimane ancora una volta – da un film della regista romana – una sensazione di incompiutezza che lascia perplessi.
Perché i temi “forti” del film richiedevano forse uno sguardo altrettanto forte e sicuro.
E la sensazione di “sfocatura” che lascia il film, se rispecchia la particolarità della situazione raccontata, sembra un’eco di un’incertezza di fondo che si traduce in scelte narrative approssimative.
E se c’è chi scrive che alla commedia all’italiana contemporanea manchi la cattiveria di quella di una volta per descrivere la “brutta realtà attuale”, vien da pensare che sia proprio il contrario; e che il problema sia di sguardo su quella realtà.
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