Com’è il bilancio del festival di Cannes, al giro di boa della rassegna che assegnerà i suoi ambiti premi al sera di domenica 24 maggio? Non eccezionale, anche se da sempre i titoli migliori del concorso arrivano nella seconda parte del festival. Tattica studiata dai suoi selezionatori per consegnare agli osservatori un buon ricordo finale della manifestazione. Finora, invece, di grande cinema se ne è visto pochino. Se escludiamo il film d’animazione che ha aperto fuori concorso il festival, il capolavoro Up di cui abbiamo già parlato nei giorni scorsi , e concentriamo l’attenzione sui film in gara che dovrebbero rappresentare l’eccellenza del cartellone (peraltro, tra film previsti fuori concorso o nelle sezioni di “ricerca” Un Certain Reguard, Quinzaine des realisateurs e Semaine de la Critique non si sono visti ad oggi titoli indimenticabili), non sono molti i film che consiglieremmo a un amico, o quanto meno ad appassionati “normali”.
Insomma, non il pubblico da festival (giornalisti e critici, addetti ai lavori, cinefili in vacanza), snob e parecchio fanatico, che va in visibilio per “ciofeche” contrabbandate per “film coraggiosi” o per operine pretenziose che – giustamente – nessuno avrà la voglia e la forza di andare a vedere nei cinema pagando il biglietto. Di questi i festival cinematografici abbondano sempre di più, e si capisce: certe “opere d’autore” sperimentali e d’avanguardia (leggi: noiose, senza capo né coda e ormai sempre più spesso ricche di violenza sadica e scene di sesso estremo ai limiti del disgusto) se non passano nei festival, che proteggono tali film e i loro autori come panda, non avrebbero alcuna cittadinanza da nessuna parte.
Per esempio, nella prima metà del festival sono sfilati in gara per Palma d’oro e premi minori alcuni film su cui è auspicabile scenda un veloce oblio: su tutti, Spring Fever del cinese Lou Ye (sarabanda confusa e disperata di amori omosessuali, ripresi in tutte le angolazioni con compiaciuto realismo, intrecciati a triangoli momentanei anche etero, crisi di gelosie, ripicche e malinconie che lasciano insensibili); artista che sarà pure inviso al regime comunista – proprio, dicono, in quanto “immorale” – ma che una volta sarebbe rimasto confinato in piccole rassegne per amatori del genere piuttosto che presentato con tutti gli onori nel principale festival del mondo.
Ma anche il filippino Brillante (solo di nome…) Mendoza, in Kinatay spreca una storia interessante (un apprendista poliziotto e neo padre di famiglia finisce, suo malgrado, in una spedizione omicida contro una povera prostituta) e non priva di significati con lentezze esagerate (metà film trascorre in una scena notturna su un furgoncino: succede pochissimo e si vede ancor meno) ma soprattutto con orrori e crudeltà che si potevano far intuire senza mostrarle con compiacimento pornografico.
Hanno deluso invece anche i pasdaran della critica due registi molto talentuosi, e altre volte giustamente apprezzati e premiati (anche se in certi momenti brillano ancora sprazzi della loro abilità stilistica): il coreano Park Chan Wook con Thirst ha messo in scena le gesta di un prete cattolico che diventa vampiro, fa strani miracoli, si innamora della moglie di un amico, copula furiosamente in lunghi amplessi mostrati doviziosamente e, dopo aver resistito alla violenza sugli altri (ma non su se stesso), viene convinto dalla donna a ucciderne il marito fino a, dopo alterco tra i due amanti, trasformarla in vampiro (seguiranno azioni ancora più efferate di lei, davvero sanguinaria); il danese Lars von Trier con Antichrist unisce suggestioni letterarie, turbamenti freudiani a immagini sessuali esplicitissime ma soprattutto a violenze che hanno messo a dura prova anche i festivalieri più disincantati.
Sul fronte della violenza, allora molto meglio due tra i migliori film visti finora: Un prophète, del francese Jacques Audiard, dura parabola – qualcuno l’ha paragonato a Gomorra: ma qui l’attenzione è tutta sul protagonista; però rende l’idea – di un detenuto maghrebino che da pesce piccolo inizia a barcamenarsi in carcere tra gang rivali fino a diventare un boss (con finale aperto su un suo possibile recupero) e Vengeance, del regista di Hong Kong Johnnie To (adorato da fan del genere action asiatico), che inscena una sanguinosa vendetta – ma non senza stile e ironia: non a caso Quentin Tarantino lo considera un maestro – da parte di un francese (interpretato benissimo dal cantante-attore Johnny Halliday) contro chi ha sterminato marito e bimbi di sua figlia e reso lei stessa in fin di vita. Non ci si annoia mai, tra tensioni e azioni fulminee o rallentate, si sorride (ebbene sì: abbonda un umorismo sottile e intrigante), ci si emoziona, si ammira la bravura, a tratti ci si commuove. Anche se fioccano morti come in un film di John Woo vecchia maniera, o in un hollywoodiano del vecchio Schwarzy. Ma con tanta classe.
Non tutti hanno, però, hanno puntano su morti e feriti. La giovane inglese Andrea Arnold (che non ci piacque nell’opera prima Red Road) con Fish Tank racconta i turbamenti di una quindicenne a disagio con la vita, che si innamora del nuovo compagno della madre e ricorda certi personaggi senza speranza di registi britannici “sociali” come Mike Leigh o Ken Loach. Che qui però è in gara con una commedia divertente: Looking for Eric, finora il film più convincente, con un operaio depresso che verrà risollevato dai consigli del suo eroe calcistico, Eric Cantona (nella parte di se stesso). Si prevedono premi per il “rosso” Ken: spesso ideologico, ma capace di cavare cinema come pochi da storie molto semplici.
Per concludere la carrellata sulla prima metà di Cannes (in attesa di Marco Bellocchio, Quentin Tarantino, Alain Resnais, Michael Haneke e altri ancora in corsa per il palmarès), due abbonati alle vittorie. È buono il ritorno della neozelandese Jane Campion, dopo anni di delusioni, con Bright Star: la storia dell’amore tra il poeta romantico John Keats e di una sua giovane musa (bravissima la protagonista Abbie Cornish) può sembrare un po’ di maniera; ma è cinema ben fatto e che riesce anche a intenerire.
Divertente ma con poco mordente invece l’operazione nostalgia venata da autocritica di Taking Woodstock, che racconta il “backstage” del celebre concerto rock del 1969; tre giorni di “pace e amore” che scatenano rimpianti in sessantottini irriducibili o rinnegati ma anche annoiata perplessità o ironico e divertito disincanto in chi, di quei formidabili anni, non sa o non vuole più saperne.