Lascia ben più che l’amaro in bocca l’esito finale del festival di Cannes, che era partito alla grande – come scrivevamo dopo la serata inaugurale – con il film animato Up. Il concorso, lo segnalavamo invece al giro di boa di metà festival, ci sembrava deludente e soprattutto zeppo di film che puntavano in maniera ossessiva e massiccia su violenze sadiche, effettacci, scene sessuali estreme e mostrate con un realismo fastidioso, sconfinamenti nell’horror gratuiti e non meritevoli di una competizione d’autore rinomata come la principale del mondo. È vero, da anni a Cannes – come negli altri festival più importanti: Venezia, Berlino, Locarno – le giurie fanno a gara per premiare autori che prediligono il compiacimento nel mostrare il male.
Che esiste, ovviamente, ma che non solo non viene giudicato ma viene squadernato senza filtri sullo schermo in modo angosciante, disgustoso (troppe volte si è costretti a girare la faccia o nascondersi gli occhi, come per gli horror di quart’ordine) o nella “migliore” delle ipotesi prolisso e noioso.
Perfino i difensori del libertinismo godereccio cinematografico hanno dovuto ammettere che al quinto giorno di violenze e atti sessuali mostrati da ogni angolatura, posizione e variante la commedia pulita e positiva di Ken Loach Looking for Eric (che sembrava scritta da un redivivo Frank Capra, invece che da “Ken il rosso”) era una boccata d’aria pulita. Che per molti commentatori meritava di vincere, o quanto meno (avendo vinto pochi anni fa con Il vento che accarezza l’erba) qualche premio. Ovviamente se ne è tornato a mani vuote. Il rito delle giurie è ormai poco credibile da anni, ripetiamo: quando vengono mandati al massacro capolavori di Clint Eastwood (Mystic River sconfitto da Elephant, pochi anni fa) e non viene celebrato il merito ma lo “stravagante” c’è poco da ben sperare per il cinema d’autore, proprio laddove – i festival – dovrebbe essere salvaguardato. C’è giuria e giuria: ma ormai i direttori di festival chiamano artisti che fanno di queste scelte con preoccupante regolarità. E quindi i risultati sono prevedibili.
Quest’anno, presiedeva la giuria Isabelle Huppert: grandissima interprete, però specializzata in film cupi sul disturbo mentale ed esistenziale, senza contare l’italiana Asia Argento che sia da attrice che da regista ha sempre fatto scelte simili. Facile pensare che la commedia di Loach potesse sembrare a loro e ad altri (certi registi…) una sciocchezzuola idilliaca.
Intendiamoci: Il Nastro bianco, il film vincitore della Palma d’oro è un ottimo film, stilisticamente potente che ricorda certi film di Ingmar Bergman grazie al bianco e nero rigoroso, all’ambientazione nordica e al contesto culturale e religioso. Siamo nel nord della Germania nel 1913, un anno prima che scoppi la Grande Guerra: violenze misteriose e strani incidenti funestano un piccolo villaggio protestante dove severe punizioni ai bambini e sottomissioni alle donne sono il filo conduttore. Un insegnante cerca di scoprire cosa c’è dietro, e si intuisce presto che la soluzione accrescerà l’angoscia e che sembra prefigurare la nascita, pochi anni dopo, di una “generazione nazista”. Lo stesso regista ci mette il carico affermando che «una certa educazione assolutista porta a degenerazioni altrettanto assolutiste, dal nazismo al terrorismo al fanatismo religioso.
Impossibile non pensare anche al film italiano, sconfitto a Cannes, cioè Vincere di Marco Bellocchio che per raccontare – in modo più incisivo di altri suoi film, ma non indimenticabile – una storia segreta su Benito Mussolini (la segregazione in manicomio, dove moriranno, di una moglie presunta e del figlio riconosciuto ma abbandonato a un triste destino) se la prende più con la Chiesa che con il fascismo.
Tornando al palmarès di Cannes, è il secondo arrivato che era il nostro favorito. Un prophète del regista francese Jacques Audiard ha vinto il Grand Prix e, nonostante un titolo oscuro che non lo aiuterà (di profetico il carcerato protagonista ha poco: ma quando escono in Italia poi a volte certi titoli cambiano), era uno dei film più notevoli del lotto.
Se la coppia di attori che hanno ricevuto l’alloro – Christoph Waltz per Inglourious Basterds di Quentin Tarantino e Charlotte Gainsbourg per Antichrist di Lars Von Trier – compensano parziali delusioni per i film dei rispettivi autori (ma meglio Tarantino, pur non epocale, a un Von Trier ancor più cupo e confuso, e inutilmente violento), altri premi fanno pensare a qualche serio disturbo dei giurati.
Ne abbiamo già parlato giorni fa, e non è il caso di ripetersi: ma il cinese Lou Ye (Spring Fever, miglior sceneggiatura), il filippino Brillante Mendoza (Kinatay, miglior regia) e il coreano Park Chan Wook (Thirst, premio della giuria, ex aequo con Fish Tank) hanno mostrato cataloghi di sconcezze ed efferatezze poco riscattate da stile e sapienza cinematografica (soprattutto i primi due, anche parecchio noiosi e in assoluto invendibili e invedibili oltre i confini festivalieri).
Peccato, perché – pur in un’annata per nulla ricca di titoli in grado di mettere d’accordo tutti: l’anno scorso oltre ai premiati La classe, Gomorra, Il divo ci fu anche Valzer con Bashir – di film di cui tener conto ce n’erano.
Oltre a Ken Loach meritevole di uno dei premi principali, ci poteva essere spazio per le vendette più ironiche che violente della coppia Johnnie (To) & Johnny (Hallyday) in Vengeance, evidentemente troppo smaglianti per entusiasmare giurati di cinefilia ascetica e pauperista. E si poteva recuperare la rediviva Jane Campion di Bright Star, o addirittura valorizzare la sorpresa portata in extremis da Xavier Giannoli con A l’origine dove un piccolo truffatore porta speranza in un piccolo paesino.
Speranza come quella che Eric Cantona regala al postino depresso di Ken Loach. Speranza che a Cannes non è mai di casa, nelle serate che assegnano i premi.