Nelle discussioni e analisi su Vincere, il nuovo film di Marco Bellocchio, ci si è concentrati molto sull’aspetto storico e sul presunto matrimonio segreto tra il giovane Benito Mussolini,futuro Duce e dittatore d’Italia, e Ida Dalser, donna conosciuta a Trento durante il suo periodo socialista. Il loro amore, e il “tradimento” di esso da parte di Mussolini, è sicuramente l’asse portante del film. Ma non sembra essere così importante, agli occhi del regista (che pure nei mesi scorsi aveva cavalcato lo scoop dello spunto, tratto da un documentario di qualche anno fa), se il matrimonio fu davvero celebrato. Nel film appare come un sogno della donna. E il fatto che avvenga in Chiesa, essendo il giovane Benito un fiero anticlericale (nella prima sequenza, in cui lei lo vede per la prima volta con grande ammirazione, Mussolini sfida Dio – per scandalizzare una platea cattolica – a fulminarlo entro cinque minuti per dimostrare che esiste), rende l’ipotesi ancora più strana.

Ma, ripetiamo, questo aspetto è tutto sommato secondario; anche se nell’economia della vicenda sembra avere un certo peso.

Ma procediamo con ordine. Ida e Benito si conoscono a Trento a inizio secolo: lei è una giovane della buona società, lui un fervente socialista massimalista (il comunismo non è ancora nato, altrimenti il suo impeto rivoluzionario e non certo riformista lo potrebbe portare lì…), ateo convinto e sindacalista tosto, pronto a scendere in piazza e menare le mani anche per la pace, convinto che la guerra sia un’arma del “governo dei padroni” contro le classi lavoratrici. Pochi anni dopo, direttore del quotidiano socialista l’Avanti, lo vediamo che ha cambiato radicalmente idea tanto da schierarsi per l’intervento nella Prima guerra mondiale, anche a costo di mettersi contro il Partito socialista e il suo stesso giornale. Che abbandona, fondando – con i soldi della donna, che per lui vende letteralmente tutto quello che ha – il Popolo d’Italia (nucleo del futuro Partito Fascista).

Ida lo ama visceralmente, affascinata dai suoi sogni ambiziosi di grandezza, e ben presto scopre di aspettare un figlio da lui. Ma il loro rapporto (e il matrimonio, o presunto tale), viene interrotto proprio dalla guerra: arruolatosi, Mussolini finisce immobilizzato in un ospedale dove Ida lo vede accudito da una donna, Rachele, appena sposata (con rito civile). Inutili le sue proteste di essere la vera moglie, e madre di suo figlio, che le costano i primi sospetti di pazzia.

Proteste che proseguiranno, anche in modo violento, da parte di questa donna tenace ed esplosiva, e che non sortiranno alcun effetto positivo: Ida e il figlio Benito Albino, prima insieme e poi divisi, saranno anzi destinati all’abbandono, alla solitudine, alla segregazione, a malattie che li portano davvero alla follia e infine alla morte in manicomio. Mentre Mussolini continua a sedurre e soggiogare, non più (o non solo) donne che cadono ai suoi piedi ma un intero popolo, che lo seguirà fino alla tragedia della guerra e della disfatta.

La prima parte del film è la più interessante: con un stile “futurista”, come affermato dallo stesso Bellocchio (con scritte in sovraimpressione a caratteri cubitali come “Audacia! Guerra, sola igiene del mondo!”, scene fiammeggianti, ritmo forsennato), restituisce con intrigante esattezza l’Italia di inizio secolo, attraversata da fermenti, tensioni e violenze e la particolare “evoluzione” di un uomo ambiziosissimo, egocentrico e disposto a tutto pur di salire al potere. La passione tra i due amanti viene rappresentata con un certo compiacimento (tante scene di sesso per essere un film di questo regista), ma tutto sommato si rende bene l’amore folle di Ida Dalser e il vitalismo nichilista del futuro Duce, che ama solo se stesso e si immagina già seduttore di folle.

Poi però il film si perde in parte proprio quando dovrebbe appassionare al dramma della donna e di suo figlio, e a dirla tutta rischia di annoiare anche un po’. Salvo poi riprendersi nel finale, grazie a inserti documentari che rivelano il destino di una nazione soggiogata dal “mostro” Mussolini e a quello, parallelo e tragico, dell’amante/moglie e del figlio omonimo, che prima di scivolare nella follia si diverte a imitare il Duce per gli amici.

Tra i pregi del film ci sono sicuramente uno stile molto elegante e l’interpretazione dei due protagonisti: a una Giovanna Mezzogiorno ormai specializzata in ruoli di donne isteriche e sopra le righe (pur avendo motivi per esserlo) si affianca l’ottimo Filippo Timi, ancora poco noto al cinema, che interpreta anche sia Mussolini da giovane che il figlio Benito Albino con uguale intensità.

Si è scritto che per Marco Bellocchio parlare oggi dell’ascesa violenta e carica di conseguenze devastanti per l’Italia da parte di Mussolini sarebbe una metafora dell’attuale situazione “berlusconiana”. Non ci sembra, e lo stesso regista non ha avallato queste ipotesi. Però quello che non convince affatto è che, per tratteggiare negativamente tali perfide malefatte (poco note) del Duce del Ventennio, si scagli ancora una volta – come in gran parte della sua filmografia – con livore anche maggiore contro la Chiesa. Non solo per quei Patti Lateranensi del 1929 (la firma del trattato a un certo punto invade tutto lo schermo) che avrebbero in qualche modo approvato la condotta del regime fascista (anche di quello che avrebbe fatto nei decenni successivi?) ma anche per l’operato di figure minori – e inventate – di religiosi e religiose. Come la giovane suora che invita ambiguamente Ida a non lamentarsi essendo stata l’amante dell’uomo più amato (allora) dalle italiane.

O, ancora peggio, come la madre superiora del convento dove la Dalser si trova rinchiusa contro la sua volontà che, alle sue legittime richieste di rivedere il figlio, le dice cose di per sé anche sensate (offrire le sofferenze pensando a quelle della Madonna) ma con tempi e modi che suonano crudeli.


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