I verdetti della giuria della Mostra di Venezia hanno premiato alcuni film sicuramente interessanti, ben fatti, che presentano temi importanti. Non c’è scandalo, come invece altre volte nei festival maggiori (Cannes, Berlino, la stessa Venezia), anche perché il livello medio del concorso non era così eccelso da giustificare cocenti delusioni. Nel senso: quando a Cannes un capolavoro come Mystic River di Clint Eastwood fu sconfitto da un film televisivo (prodotto proprio dalla rete tv, HBO, tanto che inizialmente doveva andare direttamente su quel canale via cavo) e umanamente cinico come Elephant di Gus Van Sant si poteva gridare allo scandalo. Stavolta c’erano vari film buoni e meno buoni che avrebbero meritato considerazione, ma tutti più o meno alla pari, senza grandi vette. Ma il grande cinema è un’altra cosa.
Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz né Women without men alla regista iraniana Shirin Neshat, rispettivamente Leone d’oro e d’argento, sembrano destinati a restare nella storia del cinema; e così, il terzo premiato, il turco ormai germanizzato Fatih Akin, che si è cimentato per la prima volta con la commedia in Soul Kitchen: divertente, briosa, capace di regalare una boccata d’aria fresca dopo tanti film decisamente impegnativi. Ma certo non una pellicola indimenticabile.
Il fatto è che ormai da troppo tempo le giurie dei festival sono più interessate a premiare i temi, soprattutto politici, che il merito cinematografico. Come dimostra il fatto che tra i premiati, ben quattro film fossero di registi esordienti: va bene premiare i nuovi talenti, ma non ci sembra che da Venezia siano nati sicuri nuovi maestri del cinema.
Ed era immaginabile che vincesse Lebanon, che parla delle operazioni militari israeliane in Libano del 1982, viste dalla torretta di un carro armato dove si svolge per lunghi tratti il film; con conseguente senso di claustrofobia. Il messaggio contro la guerra è chiaro e ammirevole; il film è autobiografico perché il regista (esordiente) si trovò ad uccidere in quella guerra e, come il regista del recente film d’animazione Valzer con Bashir (sulle stragi di Sabra e Chatila, sempre nel Libano nel 1982), ha esorcizzato quella terribile esperienza in un film che certo non lascia indifferenti. Ma quanto a resa cinematografica c’era di meglio.
Stessa cosa si può dire di Women without men (altro esordio alla regia), che racconta le storie di alcune donne iraniane al tempo del golpe del 1953 da parte dello Scià (con l’aiuto della Cia): e certo la coincidenza con le recenti rivolte contro il dittatore Ahmadinejad ha contribuito a creare simpatia verso il film. Interessante, emotivamente apprezzabile, un po’ prevedibile.
Come prevedibile era il premio al pur bravo Colin Firth come migliore attore: il ruolo del gay che non si rassegna alla morte del compagno – nel debutto da regista dello stilista texano Tom Ford, A single man – è di quelli che chiamano allori con facilità. Se poi pensiamo che il presidente di giuria era Ang Lee, regista di Brokeback Mountain, la scelta suona “telefonata”.
Meno scontata la vittoria di Ksenia Rappoport: l’attrice russa, lanciata in Italia e nel cinema da Giuseppe Tornatore con La sconosciuta, tocca corde profonde nell’opera prima italiana La doppia ora di Giuseppe Capotondi (che la critica ha un po’ bistrattato), anche se tutti – almeno gli italiani – si aspettavano la vittoria di Margherita Buy, toccante madre in Lo spazio bianco (si veda articolo su ilsussidiario.net).
Apprezzabile, infine, il premio per la sceneggiatura a Todd Solondz per il suo Life During Wartime, quasi un sequel del suo durissimo (ma emozionante) Happiness di dieci anni fa.
Tra gli sconfitti, oltre al già citato Lo spazio bianco di Francesca Comencini, ce ne sono alcuni che avrebbero meritato di più. Baarìa di Giuseppe Tornatore, che ha aperto la Mostra, ha parecchi limiti narrativi, ha ambizioni che il regista di Nuovo cinema Paradiso non sa governare, guarda a modelli troppo alti per le sue capacità (Amarcord di Fellini, Novecento di Bertolucci, oltre al solito gusto per l’epos di Sergio Leone); ma Tornatore è tra i pochi che fa ancora un cinema “grande”, non minimalista; che punta all’affresco storico di un Paese partendo da storie minime. Sbaglia molto, è come sempre un po’ grossolano e legittimamente può non piacere, ma è nel lotto di quei film che non si possono non vedere perché caratterizzano una cinematografia e un’annata.
Tutt’altro caso quello di Lourdes, della giovane regista austriaca Jessica Hausner, in cui un gruppo di malati e volontari vive alcuni giorni nella famosa cittadina francese, tra visite alla grotta di Maria e agli altrui luoghi sacri, momenti di convivenza e attesa di un miracolo. Tra i malati c’è una ragazza affetta da sclerosi multipla (interpretata dalla bravissima Sylvie Testud): sulla sedia a rotelle, incapace di muovere gli arti, dipende dai volontari e guarda con diffidenza ai rituali di devozione; per lei è solo una vacanza, che le permette per una volta di uscire di casa. Ma poi un miracolo sembra davvero succedere: e tutti reagiscono in modi imprevedibili…
L’autrice, pur partendo da una visione laica, osserva con oggettività e rispetto; e, se è evidente a tratti un pizzico di ironia, sono mostrati con correttezza rituali, speranze, angosce, e anche scetticismi di malati, religiosi, volontari. Il film, sostenuto da uno stile sobrio e asciutto, non si concentra tanto sui presunti miracoli (il cui vaglio è affidato dalla Chiesa a medici indipendenti), quanto sull’attesa di essi e sulla reazione a segni sorprendenti e a presunte, inspiegabili guarigioni. Un film che suscita discussioni, e che meritava apprezzamento.
In realtà, sono altri due i film che ci sono davvero rimasti nel cuore di questa edizione veneziana: il film animato Up, rivisto sul Lido dopo aver aperto il festival di Cannes (si rilegga quanto scrivemmo dalla Francia) e che, a un mese dalla sua uscita nei cinema italiani, ha commosso anche qui pubblico e stampa; e The Road di John Hillcoat, dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. Chi lo ha letto sa che si tratta di una storia apocalittica: in un futuro imprecisato, un misterioso cataclisma ha ucciso gran parte dell’umanità; tra i pochi sopravvissuti, un padre e un figlio cercano di rimanere in vita, trovare cibo dove possibile, scampare a bande di cannibali. Un film bellissimo, ma snobbato incredibilmente da giurati e critici; l’unica grande sorpresa negativa di quest’anno. Troppo angosciante? Strano, ai festival si vede ben di peggio. A parte le prove dei due eccezionali protagonisti (Viggo Mortensen era sicuramente l’attore migliore del concorso, ma gli tiene testa benissimo il ragazzino Kodi Smit-McPhee) e della bella e brava Charlize Theron in pochi ma significativi flashback, e una tensione che non viene mai meno, la pellicola commuove per la profondità del rapporto tra un padre che cerca di salvare il “fuoco” della dignità umana nel figlio e di insegnargli il Bene in condizioni devastanti, e un figlio che lo segue anche quando vede cedere il genitore sotto il peso delle inevitabili contraddizioni, perdonandolo e amandolo. E un finale commovente ma sobrio offre la certezza che la vita è positiva nonostante tutto.
Forse è questo che ha “raffreddato” tanti spettatori festivalieri: l’idea di guardare in faccia il Male, ma indicando una prospettiva e una speranza di bene. E forse per lo stesso motivo nessun distributore italiano lo ha ancora acquistato, nonostante la fama dal romanzo, vincitore del premio Pulitzer. Insomma, l’unico capolavoro del concorso veneziano forse non si vedrà mai nel nostro Paese.