Si può apprezzare un film nonostante se ne scorgano una sequenza lunghissima di difetti? Si può rimanere ammirati di fronte a un affresco – famiglia, di un paese e di una Nazione – che pure solo raramente emoziona? Con Baarìa, film di apertura della recente Mostra di Venezia, ancora una volta Giuseppe Tornatore ha diviso la critica e il pubblico. Stavolta in modo diverso dal solito: in genere i suoi film affascinano il pubblico (Nuovo cinema Paradiso, L’uomo delle stelle, La leggenda del pianista sull’oceano, La sconosciuta) e fanno storcere il naso a gran parte della critica. Stavolta, a tante recensioni negative e anche stroncature hanno fatto da contraltare recensioni entusiastiche perfino di critici che non si erano mai entusiasmati per i film di “Peppuccio” Tornatore, mentre anche chi esce dai cinema si divide. E non solo per moti geografici.
Baarìa è la storia di Bagheria (il titolo ne è l’antico nome fenicio), paese natale del regista che lo ha ricostruito interamente in Tunisia raccontata attraverso le vicende di tre generazioni della famiglia Torrenuova. Dagli anni 30 agli anni 80, si snodano le loro vicende: al padre Ciro, vaccaro orgoglioso e ignorante, segue Peppino – vero protagonista del film – giovane militante comunista, poi consigliere comunale a Bagheria che torna dall’Urss “riformista” e poi il figlio Pietro, fotografo e amante del cinema (in controluce la figura del regista). In particolare, si vede nascere la passione per la politica di Peppino, la sua storia d’amore con Mannina costellata di qualche dolore e di tanti figli, i rapporti con il partito e con gli amici di sempre (anche con i “traditori” socialisti), mentre la Storia segue passo passo e ogni tanto irrompe decisamente nelle vite dei personaggi e del paese. Ci sono tutti (forse troppi) i momenti principali della vita siciliana e italiana: dal fascismo alla Guerra e poi alla Liberazione, dai condizionamenti della mafia alle lotte tra DC e PCI, dal boom economico al ’68, fino alla speculazione edilizia degli ultimi decenni che alla fine ci mostreranno una Bagheria da quella felice e ruspante del ricordo nostalgico vagheggiata per le due ore e mezza del film.
Ma ci sono anche la fede e la superstizione magica, la famiglia e l’onore, gli ideali politici e la disillusione.
Tra le caratteristiche del film – che circola in due versioni: quella originale, presentata a Venezia, in siciliano con i sottotitoli e quella doppiata in italiano (quasi più incomprensibile e comunque inferiore) – i due giovani protagonisti ben scelti (regge la prova l’ex modella Margareth Madè, ma è soprattutto molto bravo Francesco Scianna), attorniati da un cast di attori molto noti, quasi tutti siciliani, con piccoli o piccolissimi ruoli. Impossibile citarli tutti: e alcuni (Monica Bellucci, Laura Chiatti, Raoul Bova) fanno camei di scarsa sostanza.
Ma ci sono anche le ottime prove di Leo Gullotta o Michele Placido (anche se di una sola scena), Lina Sastri (che appare, invece, in due ruoli), Luigi Lo Cascio e Beppe Fiorello, anche se i migliori sono i comici: a parte un Aldo Baglio (senza Giovanni e Giacomo) in un piccolo ruolo truce, si stagliano gli eccellenti Nino Frassica, Vincenzo Salemme e i due compari Valentino Picone e soprattutto Salvo Ficarra, il migliore fra tutti.
Ma cosa trattenere da uno spettacolo fluviale, magniloquente, a tratti noioso ma visivamente potente? Il regista di Nuovo cinema Paradiso conferma, in quest’opera summa di tutti i temi a lui cari, i suoi difetti di sempre: gli evidenti limiti narrativi (tutto è troppo frenetico, ridondante, confuso; alcuni spunti si perdono e altri sembrano reclamare un posto nella storia che non avranno), le ambizioni smisurate che non sa governare (per esempio, non funziona bene l’innesto tra Storia e vite quotidiane, come in certi grandi affreschi di Olmi, Visconti, Bertolucci, Fellini), il suo gusto per l’epos guarda a Leone ma in modo un po’ facile e grossolano, il suo gusto per il popolare a volta diventa grevità triviale, e se da alcuni attori sa trarre il massimo altri interpreti risultano assolutamente non all’altezza.
Senza contare alcuni errori di casting o di “trucco” che rendono poco plausibili certi passaggi e certi rapporti di parentela (la madre di Mannina, prima troppo giovane poi troppo vecchia…). Eppure Tornatore è tra i pochi che fa ancora un cinema “grande”, non minimalista; che sa far “kolossal” con grandi scene di massa, movimenti di macchina complessi e un respiro e uno sguardo più ampio, assecondato dalla colonna sonora di Ennio Morricone; e, pur con momenti che risulteranno oscuri e poco comprensibili (balzi temporali in cui in pochi secondi passano decine d’anni, riferimenti storici difficili da cogliere), ci racconta comunque una famiglia e un Paese con emozione e partecipazione, anche se solo per sprazzi.
Soprattutto ha capacità visive che esaltano il mezzo cinematografico (molti suoi film, e Baarìa su tutti, sono inconcepibili su piccolo schermo, come quelli dei grandi di una volta), ha una concezione del Cinema come macchina poetica, emotiva, onirica inventiva in certi momenti trascinante; capace ancora di strappare – a momenti – esclamazioni di stupore.
Insomma, pur con i suoi difetti, Baarìa è nel lotto di quei film che non si possono non vedere: non sarà il capolavoro annunciato da tanti (tra cui il premier Silvio Berlusconi, che ne è anche il primo finanziatore con la sua Medusa…), ma è Cinema che non si fa più. E che costringe – Dio ci conservi a lungo Peppuccio Tornatore – a farsi vedere al cinema, anche senza effetti 3D.
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Baarìa è la storia di Bagheria, paese natale del regista che lo ha ricostruito interamente in Tunisia raccontata attraverso le vicende di tre generazioni della famiglia Torrenuova. Dagli anni 30 agli anni 80, si snodano le loro vicende: al padre Ciro, vaccaro orgoglioso e ignorante, segue Peppino, giovane militante comunista, poi consigliere comunale a Bagheria che torna dall’Urss “riformista” e poi il figlio Pietro, fotografo e amante del cinema (in controluce la figura del regista). In particolare, si vede nascere la passione per la politica di Peppino, la sua storia d’amore con Mannina costellata di qualche dolore e di tanti figli, i rapporti con il partito e con gli amici di sempre (anche con i “traditori” socialisti), mentre la Storia segue passo passo e ogni tanto irrompe decisamente nelle vite dei personaggi e del paese.