La morte del regista francese Eric Rohmer, a quasi 90 anni, induce qualche riflessione, tardiva ma necessaria. Intanto, con lui scompare un cinema che ha avuto grande importanza negli anni 70 e soprattutto 80, e che oggi forse non ha più un pubblico di seguaci. Perché quei racconti colti, aggraziati e curiosi, oggi rischierebbero di non trovare accoglienza neppure nelle sale d’essai che decretarono un tempo la nascita del fenomeno Rohmer.

Ma forse qualche responsabilità ce l’hanno anche la critica (e forse lo stesso pubblico di fans), che hanno tramandato del regista nato nella cerchia dei Cahiers du Cinema un’immagine così altezzosa, intellettualistica e demodè da diventare ben presto – per reazione – simbolo di un cinema noioso e incommestibile a cinefili non fanatici. Magari anche senza vedere i suoi film, che si amavano o si odiavano a scatola chiusa.

Nascevano certe discussioni – davanti ai cinema, su giornali, tazebao alla Mostra di Venezia: non c’erano ancora i blog… – basate su un assunto: pochi davvero lo conoscevano, o lo capivano. Ma, appunto, la critica che lo sosteneva ne faceva un santino poco interessante per chi non era un “adepto” (cosa che poi è diventata sempre più frequente, per esempio con i registi asiatici). I suoi film erano sì di grande rigore formale, ma – sotto l’apparenza di trattenuta e delicata rappresentazione di sentimenti “normali” – raccontavano il fremito della passione, e anche il dolore. A saperlo guardare. Tutto ciò, da certa critica, non emergeva. Ne derivava – anche in certi commenti di questi giorni, in mortem – un’immagine quasi da cinico e distaccato osservatore dei destini umani. Immagine falsa.

 

Chi scrive, da giovane, era tra quelli che si vedevano tanti bei film d’autore, anche europei, ma erano vittima del pregiudizio su Eric Rohmer (e la gran parte del cinema francese), considerato un sopravvalutato, simbolo appunto di noia cinematografica. Poi, per caso e per lavoro, la frequentazione divenne meno saltuaria: negli anni 90 la serie dei Racconti delle quattro stagioni (Racconto di primavera, Racconto d’inverno, Un ragazzo… Tre ragazze, demenziale titolo italiano per l’originale Racconto d’estate) è un crescendo notevole, che si conclude nel 1998 con il delizioso Racconto d’autunno.

A ritroso, Il raggio verde, evitato con cura, recuperato si rivelò davvero un gioiellino. Ricco di inquietudine ben mascherata, e dove il Caso – come in Kieslowski, con più leggerezza e meno dramma – è un parente discreto del Destino. Prima ancora, i capolavori dei decenni precedenti: La collezionista, La mia notte con Maud, Il ginocchio di Claire, La marchesa von… (dal romanzo di Heinrich von Kleist) che anche in Italia fu nel 1977 un “caso” quanto a successo di pubblico.

 

Negli anni 80, di poco precedente a Il raggio verde (Leone d’oro a Venezia), Le notti della luna piena con un’intensa Pascale Ogier (nei panni di una ragazza che non sa amare), giovanissima speranza del cinema francese che sempre a Venezia vinse la Coppa Volpi prima di morire improvvisamente per una crisi cardiaca.

 

Venezia era la sua vera casa, ormai, non Cannes dove i connazionali avevano smesso da tempo di amarlo Quasi tutti i suoi ultimi film passarono dalla Mostra sul Lido. E se l’ultimo, il poetico Gli amori di Astrea e Celadon, non l’ha purtroppo visto quasi nessuno, e il precedente Triple agent è un curioso e veloce passaggio nel genere spy story, La nobildonna e il duca (2001) è il film più sorprendente della sua filmografia. Già superati gli 80 anni, Rohmer utilizzò – neanche fosse un esordiente amante delle sperimentazioni – la tecnica digitale per raccontare una vicenda ambientata durante il Terrore di Robespierre.

 

 

Duro attacco alla Rivoluzione Francese (con rivoluzionari brutti, sporchi e cattivi, insensibili al bello e alle buone maniere), e soprattutto al suo delirio di fanatismo e violenza, gli causò il definitivo ostracismo – con disprezzo ricambiato – da Cannes e dalla Francia (e Venezia gli regalò in quel’occasione il Leone d’oro alla carriera) per “lesa maestà” del mito rivoluzionario.

 

Di quel capolavoro si ricordano con ammirazione la geniale trovata creativa di inserire i personaggi in sfondi pittorici, regalando tableaux vivants emozionanti. E soprattutto il coraggio di sfidare il politicamente corretto e tabù inattaccabili. Con un personaggio di donna (la nobildonna inglese, che si batte contro un sistema violento e brutale) indimenticabile. Un’opera da riscoprire, per amore della Storia e anche di un (bel) cinema che forse, senza Rohmer, sarà più difficile vedere.