Come ogni anno, sotto le feste, si è fatto un gran parlare del successo dei cinepanettoni natalizi e della loro volgarità. Con tale definizione si intende quel filone, lanciato oltre 25 anni fa dai fratelli Vanzina e perfezionato subito dal produttore Aurelio De Laurentiis che da cinque lustri lo porta avanti, basato su comici che ruotano attorno al mattatore Christian De Sica (ma fino a qualche anno fa c’era la presenza fissa di Massimo Boldi), bellone più o meno vestite, volgarità assortite – soprattutto parolacce e battute grevi, allusioni sessuali esplicite e disavventure “scatologiche” (che hanno a che fare, cioè, con gli escrementi…) – ma anche tante gag, giochi di parole e meccanismi da commedia degli equivoci.



Un mix ormai imbattibile che ogni Natale miete incassi multimilionari. Una decina d’anni fa, a dir la verità, stava andando in crisi, o quanto meno veniva surclassato da nuovi comici che sembravano più freschi e meno volgari: da Leonardo Pieraccioni (Il ciclone, che era solo il suo secondo film, fece incassi ancor oggi irraggiungibili dai film di Natale) al trio Aldo Giovanni e Giacomo (anch’essi con titoli formidabili come Tre uomini e una gamba, Così è la vita, Chiedimi se sono felice). Poi Aurelio De Laurentiis ha iniziato a modificare, ogni due o tre anni, la compagine, ha inserito nuovi comici a volte completamente fuori dal suo giro (Massimo Ghini al posto di Boldi, un passaggio veloce di Claudio Bisio insieme a Fabio De Luigi, poi De Luigi in coppia con Michelle Hunziker come in una sit-com di Canale 5, ora Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi), ha anche oliato sceneggiature un tempo più raffazzonate. Niente di sofisticato, per carità, ma a dispetto di certi critici prevenuti, per qualche anno il cinepanettone si è potuto vedere senza vergognarsi troppo: Natale a New York e Natale a Rio sono tra i migliori della serie, e almeno a tratti divertono davvero.



Ha ragione Simone Fortunato, critico di Tempi, quando sostiene che non li si può respingere a scatola chiusa, come se tutti gli anni fossero uguali. Quest’anno, per esempio, Natale a Beverly Hills è più volgare e, peggio ancora, fa meno ridere. Forse non è un caso che stia perdendo qualche soldo rispetto agli ultimi anni, pur senza una concorrenza comica forte. Il Pieraccioni di Io & Marilyn, suo rivale diretto, è infatti uno dei film più deboli del comico toscano. Non si ride praticamente mai. Perché è vero che il cinepanettone è volgare – e personalmente ci tiriamo fuori dalla querelle se fotografi la volgarità dell’italiano medio (qualcuno dice del Paese tout court) o abbia contribuito pesantemente a tale decadimento – ma anche nelle annate peggiori qualche risata la strappa, eccome. Magari di quelle di cui ci si vergogna un secondo dopo, quando la battuta è decisamente pesante o il gioco di parole non proprio oxfordiano (come i vari cognomi del personaggio di Massimo Ghini e dei suoi augusti avi, che passano da un Della Fregna, da pronunciare con un “g” gutturale, a un Della Mona e così via…). Ma si ride. E quello dovrebbe succedere con un film comico.



Invece, in altri casi, i comici (anche qui citiamo Pieraccioni e il trio Aldo Giovanni e Giacomo) per troppe ambizioni o per scarsità di ispirazione, buttano alla rinfusa temi seri (il matrimonio, la famiglia, la paternità) e battute sciape, gag telefonate e turpiloquio solo un po’ meno greve ma senza la sulfurea convinzione di un De Sica (che a quello che fa ci crede sempre), e con pochissimo ritmo. Ne nasce appunto un Io & Marilyn che dovrebbe essere una fiaba gradevole e con una storia tra il surreale e il malinconico che lascia molto perplessi, con momenti di imbarazzo e perfino di noia. Quanto a chi critica la banda di De Sica, De Laurentiis e Neri Parenti (il regista che li segue da una quindicina d’anni, da quando i Vanzina lasciarono la serie), ricordiamo che Massimo Boldi abbandonò la truppa perché non ne poteva più delle eccessive scurrilità e di non poter proporre una comicità più matura (e in effetti ne sarebbe capace). Ma dopo, da solo, si è fatto produrre da altri i pessimi Olè, Matrimonio alle Bahamas e La fidanzata di papà (con Simona Ventura, che non sa proprio cosa voglia dire recitare), spesso in compagnia di altri comici espulsi dal giro del vulcanico Aurelio De Laurentiis (Biagio Izzo, Enzo Salvi, i Fichi d’India che troppo presto furono esaltati ai loro esordi cabarettistici). Risultato: film con gli stessi meccanismi del prototipo, ma ancora più volgari e per nulla divertenti.

Intendiamoci: non stiamo esaltando un genere che ci piace poco, e come tanti rimpiangiamo la commedia sofisticata e anche quella popolare di una volta, che proponeva i Totò e Peppino De Filippo, i Franchi & Ingrassia, o attori di grosso calibro come Gassman, Mastroianni, Tognazzi, Sordi (che pure qualche responsabilità sulla progressiva volgarità di un certo cinema ce le ha avute…). E concordiamo con Marina Corradi, che su Avvenire ha lucidamente puntato l’indice sul vero problema di questi film: che non mostrano la bellezza, non raccontano qualcosa di bello (quando provano a cambiare tono si limitano a buonismi artefatti). Però ridere è liberatorio, e non vorremmo che dietro a molte critiche ci fosse il solito vizio di denigrare la comicità al cinema (genere nobile quanto altri). Certo, sarebbe molto meglio farla con classe, briosità, pulizia di linguaggio e situazioni.

In Francia Bienvenue chez les Ch’tis – da noi rititolato Giù al nord – divenne due anni fa il maggior successo di tutti i tempi per la sua comicità semplice, per il racconto divertito di gente normale, di un popolo vero. E i primi successi dei già citati Pieraccioni e Aldo Giovanni e Giacomo, ma anche di recenti successi del duo siciliano Ficarra e Picone, dicono che c’è chi vuole ridere in maniera intelligente. Intelligenza che può essere utilizzata anche nell’uso di “materiali bassi” – come il non sense e gli equivoci e perfino qualche battutaccia – come ha fatto il comico tv Checco Zalone e il suo regista Gennaro Nunziante con Cado dalle nubi. Non a caso, la sorpresa comica dell’anno.