Ogni anno, di questi tempi, la scelta del film italiano da far correre per l’Oscar al miglior film in lingua straniera (straniera per Hollywood, ovvero non inglese: si gioca in casa loro), fa sempre un po’ discutere. Quest’anno la commissione dell’Anica, l’associazione delle industrie cinematografiche (con produttori, distributori, giornalisti e critici e due “artisti”: il regista Gabriele Salvatores e lo scenografo Dante Ferretti), ha puntato le sue fiches su La prima cosa bella di Paolo Virzì, e di polemiche non ce ne sono state poi molte.

A parte quelle di uno dei favoriti della vigilia (saper perdere, come noto, non è mai facile), quel sorprendente outsider che era Luca Guadagnino con il suo Io sono l’amore che, dopo un passaggio alla Mostra di Venezia 2009 senza squilli e un’uscita disastrosa nei cinema italiani, ha girato per il mondo con gran successo. In particolare proprio in America, dove da settimane miete consensi e persino (cosa rarissima, per un film italiano) incassi. Forse sospinto dalla presenza di una star internazionale come Tilda Swinton, o per il “decor” che ricorda i film di Visconti (negli Usa ci ricordano ancora come eravamo decenni fa, a livello di cinema), certo è che si tratta di un fenomeno a dir poco curioso. All’estero lo considerano un capolavoro, da noi – a parte qualche critico caduto in deliquio – le ironie sul film e sulla presunzione del regista si sono sprecate. Per la cronaca, chi scrive sposa la seconda tesi…

È allora giusto il verdetto della commissione selezionatrice? Diciamo che è corretto, in funzione dello scopo. In questo “grado di giudizio”, non si sceglie il film più bello ma quello che ha più chance di arrivare alla Notte degli Oscar del 27 febbraio (al Kodak Theatre di Los Angeles), quindi nella cinquina delle nomination che saranno annunciate il 25 gennaio. E magari di vincere la statuetta.

Cosa un tempo facile per i nostri film (tra il 1947 e il 1975 ne abbiamo vinti 9, cui si aggiungono i tre degli anni 90: Nuovo cinema Paradiso, Mediterraneo e La vita è bella), forti di un cinema che aveva da insegnare al mondo intero con i suoi De Sica, Fellini, Visconti, Rossellini e così via, e anche di una concorrenza ridotta.

Oggi corrono quasi 70 paesi e anche cinematografie povere o “minori” possono piazzare la sorpresa. Da La vita è bella, nel 1999 non solo non vinciamo ma abbiamo conquistato una sola nomination con La bestia nel cuore; eppure altre volte avevamo anche film più belli. Ma la corsa all’Oscar “straniero” (il premio che interessa meno gli oltre 6000 votanti dell’Academy) è davvero difficile: due anni fa Gomorra sembrava vincitore sicuro, spinto da americani eccellenti come Martin Scorsese; non finì nemmeno nella scrematura dei nove prefinalisti.

 

In quest’ottica, La prima cosa bella è un buon candidato: il bel film di Paolo Virzì – sulla vita scombinata ed eccessiva di una mamma di cui vediamo scorrere, in un andirivieni temporale, tutta la vita e che ha condizionato l’esistenza dei figli – è un mix di emozioni (si ride e si piange, come nelle migliori commedie) che ha conquistato il pubblico italiano e che può far simpatia anche negli States, dove dal cinema italiano si aspettano questo tipo di film, dove i difetti dei nostri connazionali sono temperati dal divertimento e da una certa condiscendenza.

Da questo punto di vista, potevano sperare anche La nostra vita di Daniele Luchetti (premiato a Cannes per il miglior attore, Elio Germano), il cui aspetto sociale però lo fa sembrare a tratti una versione alla romana dei film di Ken Loach (ma molto meno registrata narrativamente), e Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, commedia in salsa gay che aveva conquistato il festival Tribeca di New York. Ma è noto che i film che piacciono a Manhattan sono rifiutati a Los Angeles e quindi per l’Oscar c’erano poche chance.

Ma il film che fino all’ultimo sembrava potercela fare, o che ha comunque confuso le idee ai giurati, era L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. Ai David di Donatello, su una base di votanti molto più ampia (circa 1600), era riuscito a sconfiggere proprio Virzì. E con un film molto più duro, racconto di una serie di stragi naziste nelle campagne del bolognese durante la Seconda guerra mondiale, culminate in quella di Marzabotto. Diritti, però, ha avuto la geniale idea di raccontare questa tragedia storica a partire dallo sguardo di una bambina che a tutti i costi vuol salvare il fratellino appena nato. Una scelta che sposta l’accento dell’opera dalla violenza alla speranza.

Virzì merita il sostegno di tutto il cinema italiano: la sua commedia, pur con un’esuberanza non sempre controllata a mano ferma, ha non pochi pregi. E dal punto di vista, appunto, tattico è probabile che la scelta sia caduta sul “cavallo” con maggiori possibilità di arrivare almeno alla nomination. Quando Salvatores vinse l’Oscar con Mediterraneo quasi si vergognò di aver scippato, con la sua divertente commedia bellica, la statuetta a un capolavoro come Lanterne rosse di Zhang Yimou.

Ma il film italiano più bello dell’anno rimane senza dubbio L’uomo che verrà. E se è vero che era più difficile da far “passare” ai votanti americani, la controprova non ci sarà mai. O forse sì: la Francia punta su un film rigoroso e austero come pochi: Des hommes et des dieux, che uscirà a breve in Italia come Uomini di Dio: la rievocazione del martirio di alcuni monaci cattolici in Algeria negli anni 90. Premiato a Cannes, pare sia già uno dei favoriti…