Festival o ancora festa, come si chiamava nelle prime edizioni? Manifestazione internazionale che, per quanto ancora giovane, per forza di cose deve fare concorrenza a più stagionati eventi cinematografici (a cominciare dalla connazionale Mostra di Venezia) o rassegna per la città di Roma, Capitale italiana ma anche del cinema nel nostro Paese, dove pubblico, operatori e artisti si mescolano in una continua simbiosi? Nei primi anni, soprattutto i primi due della “grandeur” veltroniana l’equivoco era sommo.
E si parlava addirittura – pur negandolo ufficialmente – di dar fastidio a appunto a Venezia. Poi, uscito di scena Walter Veltroni e sostituito come sindaco da un Gianni Alemanno che inizialmente l’avrebbe forse chiusa volentieri (ma poi ha cambiato idea) e rinfoderate certe smodate ambizioni, il Festival Internazionale del Cinema di Roma ha trovato una sua cifra, più limitata ma non priva di interesse.
Trattandosi di proposte cinematografiche, si deve sperare che quelle in giro per il mondo (a valle delle scelte di Cannes, Locarno e Venezia) siano valide. Finora, su cinque edizioni, le migliori sono state quelle pari, nel 2007 (tra i titoli, Into the Wild e Onora il padre e la madre fuori concorso e Juno a vincere una gara, pur modesta) e nel 2009 (con L’uomo che verrà premiato da giuria e pubblico e Il concerto fuori concorso per scelta, ma anche Tra le nuvole in gara senza premi).
La quinta edizione, che si è conclusa ieri dopo nove giorni di film, incontri e retrospettive, come sempre si è appoggiata molto al cinema americano già passato di recente a Toronto e meno di recente al Sundance (per una rassegna di questo tipo, inutile fare gli schizzinosi e puntare solo alle anteprime assolute). Sul cinema italiano, invece, si poteva contare poco avendo Venezia fatto razzia.
In generale, Roma ha offerto meno degli anni migliori, ma non sono mancate proposte interessanti.
Se con Piera Detassis direttore unico (dallo scorso anno, dopo i cinque direttori dell’era Veltroni-Bettini, il Goffredo senatore e presidente della Fondazione che lo organizza) il concorso è sicuramente cresciuto, non è e non sarà mai il suo punto di forza. Del Marco Aurelio d’oro interessa poco pure a chi ci concorre, e nessuno baratterebbe uno spazio laterale a Venezia per gareggiare nella Capitale.
Quindi, sciogliamo velocemente la pratica premi, abbastanza corretti. Il Marc’Aurelio a Kill Me Please del regista belga Olias Barco incorona il film che ha riscosso fragorosi consensi di giornalisti e pubblico, con il suo umorismo macabro e scorretto. Fin troppo, e onestamente tanta allegria nera di fronte a una carneficina generale era difficile condividerla a cuor leggero. Anche se la dolce clinica dell’eutanasia che si trasforma in mattatoio alcune cose interessanti le dice, come, per esempio, che di fronte al rischio di essere massacrati da una banda di assaltatori, i morituri si aggrappano (quasi tutti) con forza alla vita. Ma onestamente il film, per quanto non lasci indifferenti, può disturbare: per stomaci forti, insomma (a parte i cinefili, che notoriamente sono onnivori e non hanno problemi digestivi).
Molto meglio il “secondo classificato” In a better world, forse la migliore pellicola del festival che ha vinto il Gran Premio della Giuria e anche il Premio del pubblico (superando appunto un altro film molto amato come Kill me Please). La danese Susanne Bier tocca temi importanti (c’è di mezzo un medico idealista, che spera in un mondo migliore ma vede cose orrende in Africa, ma si parla anche di dolore di ragazzi di fronte alle durezze della vita, di doveri familiari, di scelte) con una profondità che la caratterizza come una dei registi più sensibili del cinema contemporaneo. E con uno stile e un’abilità drammaturgica ormai riconoscibile. Infine, tra gli altri premi, giusto quello a Toni Servillo, protagonista di Una vita tranquilla di Claudio Cupellini: film interessante e ben fatto, sostenuto da quello che è ben più che solo il miglior attore italiano.
Pur in un’annata non ricchissima non sono mancate le altre “chicche”: per esempio la bellissima retrospettiva sullo Studio Ghibli, non solo con i film del suo fondatore e maestro Hayao Miyazaki (a breve nei cinema Porco rosso, del 1992 ma mai uscito da noi: con il protagonista che si chiama Marco Pagot, evidente omaggio ai fratelli italiani creatori di Calimero!) ma anche con nuove produzioni come Arrietty (per ora senza distribuzione in Italia), una favola su piccoli omini di 10 cm che lottano per sopravvivere e sfuggire agli uomini; e, come sempre, con personaggi indimenticabili e con messaggio di conciliazione tra le razze commovente e non banale.
Curiosa la presenza di alcuni prodotti televisivi superiori a molti film in programma: dal Carlos di Assayas (dimezzato rispetto a Cannes) a Le cose che restano di Tavarelli, che segue il solco del precedente La meglio gioventù, e soprattutto l’episodio pilota della serie Boardwalk Empire, firmato da Martin Scorsese che produrrà i successivi per il canale Hbo (da noi su Sky a gennaio), summa dei suoi gangster movie. Ottimi anche alcuni documentari, su tutti The Promise che ha portato Bruce Springsteen a contatto col pubblico romano (si racconta la genesi di uno dei suoi primi album) e Waiting for superman, radiografia impietosa della scuola pubblica americana.
Tra i film “veri”, ha entusiasmato The social Network di David Fincher, ritratto al vetriolo del giovanissimo fondatore di Facebook (il più giovane multimiliardario del mondo) che conferma la vitalità hollywoodiana nonostante mille pressioni per puntare solo su saghe, sequel, remake… Qui è tutto nuovo e classico al tempo stesso: ritmo, intrighi, sentimenti, tradimenti. E la capacità di raccontare la nascita di un fenomeno mondiale senza farne un istant movie ma anzi volando alto: cos’è l’amicizia nel mondo dei social network?
Da ricordare anche Rabbit Hole con Nicole Kidman e Aaron Eckart, straziante elaborazione del lutto di una coppia di coniugi che ha perso il proprio unico figlioletto: si arriva alla disperazione e alla rivolta a Dio (la donna sfiora la bestemmia), c’è compassione senza indulgere nella facile lacrima, si apre una possibilità di ripartenza non consolatoria. Anche se in questi film il rischio del “già visto” è altissimo, ma anche questo è esempio di ottimo cinema americano.
L’Europa, oltre ai vincitori citati, non ha offerto moltissimo, e certe pellicole anche applaudite ci sembrano sopravvalutate: come Oranges and Sunshine del figlio di Ken Loach. Interessante però Poll di Chris Kraus (l’autore di Quattro minuti, film di qualche anno fa), storia della maturazione umana e artistica di un’adolescente alla vigilia della Grande Guerra. Ma non sono mancate le pellicole più importanti che riuscite (come I fiori di Kirkuk, evocazione del massacro dei curdi da parte del regime di Saddam ad opera di un regista ormai di casa in Italia) e neppure le delusioni. Purtroppo anche sul fronte italiano. Come il modesto La scuola è finita, gli ambiziosi ma irrisolti Gangor e Io sono con te. Che, trattandosi, della vita di Maria e dell’educazione del piccolo Gesù meriterà un approfondimento a parte.