Ma cos’ha fatto Gabriele Muccino ai critici, “laureati” o apprendisti, titolati o alle prime armi? Raramente un regista ha raccolto così tanto livore ingiustificato, tanto che – anche quando non si parla di lui ma di altri film e registi – “alla Muccino” è diventato un insulto. Il problema, pochi giorni fa, lo ha sollevato lo stesso regista romano, dichiarandosi stufo della critica italiana, e da tempo: «Ho molto poca considerazione per chi giudica un film in questo Paese» ha dichiarato, aggiungendo che stima molto più il pubblico e che nessun critico si è accorto, per esempio, della forte religiosità del film. A cominciare dalla scena in cui un personaggio (Adriano, interpretato da Giorgio Pasotti), porta letteralmente la Croce: probabilmente metafora della sua via Crucis personale.



Al di là dello sfogo, bisogna ammettere che raramente Muccino viene considerato in modo equanime. E dire che i suoi primi film furono vezzeggiati forse anche oltre i propri meriti: “Ecco fatto” e “Come te nessuno mai” rivelavano capacità di osservazione dell’universo giovanile (e non solo, se si pensa alla perfetta descrizione dei genitori ex sessantottini nel secondo film) e abilità tecnica, ma erano più superficiali nel rappresentare speranze e delusioni amorose di adolescenti e ragazzi di quanto si volesse ammettere. Ma quelIi erano piccoli film, che un critico non fa quasi mai fatica a difendere.



I problemi sono cominciati con “L’ultimo bacio”, enorme successo a sorpresa del 2001 che consacrò il regista a star. Si sa che il successo diventa una maledizione per un autore, soprattutto se giovane. Muccino, che non era un Maestro neanche in erba e tutto sommato non ha mai dato mostra di ritenersi tale, divenne un bersaglio da colpire. Senza scendere più di tanto nel merito. I suoi film erano considerati troppo romani, modaioli, furbi. E quello che raccontava? Pochi avevano la pazienza di analizzarlo.

Oltre tutto, per essere un regista considerato “furbo” (ovvero, capace di raccontare al pubblico) era così poco astuto da replicare spazientito alla stampa. Peccato mortale che nessun regista dovrebbe fare. Si alienò, così, in fretta le residue simpatie. Intendiamoci: i suoi film possono legittimamente non piacere, e in effetti non ci convincono del tutto. Solo il suo “La ricerca della felicità”, debuttò in America con Will Smith, ci sembra un film completamente riuscito. E il successivo film americano, “Sette anime”, è una storia terribile. Anche “Ricordati di me”, pur con molte intuizioni interessanti, era un quadro sovraeccitato dei guasti della famiglia e della società attuali.



Ma difendiamo la sua, anche se incompleta e confusa, ricerca di senso. Prendiamo l’ultimo suo film, il recente "Baciami ancora" che segue a dieci anni di distanza (in realtà nove) i personaggi di "L’ultimo bacio". Come in quel film, dietro l’apparenza di storie d’amore nevrotiche e ansiogene, c’è la fotografia di un’umanità dal cuore impazzito, che vorrebbe la felicità e sa creare solo danni. Per esempio, mandando a pezzi matrimoni e lasciando scie di rancori e a volte anche figli senza padri o comunque divisi tra due genitori.

 

E Muccino – che con tre figli da tre donne diverse sa di quel che parla – non fa sconti ai guasti di queste situazioni. Com’è evidente il giudizio sulla famiglia come punto di riferimento ineliminabile e prezioso e sull’importanza della figura del padre. Ma la cosa più interessante è l’ammissione di un’inquietudine che colpisce proprio quando sembra che la vita vada bene. C’è l’amore, il lavoro va bene, sta per arrivare un figlio: e allora, cos’è che mi manca, si chiedeva il protagonista Stefano Accorsi nel primo film?

 

In "Baciami ancora", lui e i suoi amici quarantenni vivono dolori, frustrazioni, angosce o tragedie in campo affettivo. Ma anche stavolta, Carlo/Accorsi si chiede – quando la paura di un tumore svanisce, e riprende a vivere e a intravedere una possibilità con la sua ex moglie – «Perché, quando tutto potrebbe andar bene, continua a mancarmi qualcosa?». Una domanda che nel film non trova risposta, certo, ma una domanda capitale. Che nessuno ha colto, nella foga di distruggere Muccino.

 

E sì che, almeno tecnicamente, bisognerebbe tenerselo stretto per la capacità di narrare, agganciare l’attenzione dello spettatore, cogliere gli umori della realtà. E anche dirigere gli attori: qualità in cui eccelle: non solo per come ha saputo trarre da un ottimo attore come Will Smith una performance come quella di "La ricerca della felicità", ma anche per il lavoro nei suoi film italiani: è stato il primo a saper far recitare Monica Bellucci ("Ricordati di me"), ha saputo trasformare carenze in qualità (la naivetè di Martina Stella in "L’ultimo bacio", le difficoltà di dizione del fratello Silvio in "Come te nessuno mai" e "Ricordati di me").

 

 

E gli ottimi risultati sui suoi coetanei in "L’ultimo bacio" e soprattutto "Baciami ancora", personaggi che – si vede – conosce bene: Stefano Accorsi (anche lui maltrattato dalla critica più del necessario) rende bene un personaggio che ha conosciuto un’evoluzione dal trentenne che si lascia sopraffare dagli avvenimenti al quarantenne che prende atto delle sue miserie e cerca di porre riparo; Sabrina Impacciatore e Giorgio Pasotti sono giunti con lui a una maturità da interpreti notevole; Claudio Santamaria e Pierfrancesco Favino si confermano gli ottimi attori di cui si sapeva; Vittoria Puccini (che sostituisce in "Baciami ancora" Giovanna Mezzogiorno) si inserisce bene in un gruppo di attori affiatato. E ne dimentichiamo altri.

 

Caso mai sono le sceneggiature – non sono sempre ben registrate – il suo punto debole. Ma le qualità di Gabriele Muccino, che sta migliorando in questa sua carriera parallela tra l’Italia e Hollywood (ora andrà a girare negli Usa un film di fantascienza con Keanu Reeves), sono anche altre. Questo regista che in America è più stimato che in Italia (non solo da Will Smith, con cui ha fatto due film: tante star vorrebbero lavorare con lui), dimostra infatti di essere sempre più sincero indagatore dei sentimenti (anche se, è vero, i suoi personaggi spesso ne sono in balìa) e delle inquietudini contemporanee, che diventano anche disperazione come è normale che sia quando la domanda di senso non trova risposta.

 

Così, in "Baciami ancora" il più fragile del gruppo non ce la fa. E gli amici, in un momento davvero commovente del film, sono distrutti, affranti, senza parole. Li vogliamo mal giudicare per questo, o piuttosto compiangere? E nel finale – sicuramente troppo diluito, allungato, a rischio in un paio di momenti di scivolare nel ridicolo involontario come nei tira e molla tra Accorsi e la (brava e bella) Vittoria Puccini – mentre qualche storia si ricompone con fatica, si fa strada l’urgenza di mettere radici. Come forse intuisce perfino il personaggio più sfocato, perennemente in fuga, appena arrivato nel lontano Brasile.