Non sempre agli Oscar vince un outsider o un “piccolo” film (per gli standard americani), ma qualche volta succede. Fu una sorpresa un anno fa The Millionaire, film scartato alla Mostra di Venezia e poi trionfatore agli Oscar. E qualche anno fa nessuno si aspettava la vittoria di Crash, film a basso budget e con tante (troppe) storie da raccontare grazie anche a un grande cast.
Ma la lunga marcia di The Hurt Locker, il film di Kathryn Bigelow premiato l’altra notte con 6 statuette tra cui le due principali (miglior film e miglior regia: prima donna nella storia in questa categoria), è stata sorprendente perché il film uscì quasi in sordina negli Stati Uniti, dove il modesto incasso di 15 milioni di dollari sembrò enorme per una distribuzione ridotta, in poche copie. Perché The Hurt Locker è un film prodotto in economia, da una produzione indipendente: la Bigelow non faceva film da anni, e l’ultimo suo successo era stato Strange Days (il suo capolavoro, del 1996, scritto insieme all’allora marito James Cameron sconfitto da lei agli Oscar: chi non lo ha mai visto lo recuperi).
La cosa curiosa è che in Italia, poi, il film è più “vecchio”: uscì un anno prima, a ottobre 2008, e fu una meteora. Lo videro solo pochi intimi. Adesso qualche copia verrà rimessa in circolazione: e vediamo se, nonostante sia già disponibile in dvd e sui canali Sky, qualcuno avrà voglia di vederlo – come merita – sul grande schermo.
Ma meritava anche gli Oscar, questo piccolo grande film? I giudizi non sono mai facili in un ambito così vasto come il premio dell’Academy of Motion Picture Association, che valuta il meglio di un anno del cinema anglosassone (non solo americano: The Millionaire era prodotto da una produzione inglese). In senso assoluto, e lo abbiamo scritto in sede di commento alle nomination, il film più bello dell’anno era Up: ma sappiamo che un film di animazione è già tanto se riceve la candidatura a miglior film.
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Ci sono altri grandi film che vengono eliminati con motivazioni oscure (ci fu il periodo dell’ostracismo a Woody Allen, quando sfornava capolavori a ripetizione, poi a martin Scorsese; ora a Clint Eastwood, che – penseranno i giurati – sarà sazio delle vittorie passate). E quest’anno non mancavano i candidati che avevano smosso i cuori dei giurati: un altro outsider come Precious (appena acquistato per l’Italia dalla Fandango: si vedrà anche da noi, per fortuna), The Blind Side con la premiata Sandra Bullock, due grandi film come Bastardi senza gloria e Tra le nuvole (altra personale preferenza di chi scrive).
Senza contare The Road, film dimenticato perfino nelle nomination allargate di quest’anno ma che nella decina dei finalisti poteva starci (anche lui recuperato per il mercato italiano, lo si vedrà presto – per fortuna – da noi). In un’annata ricca come raramente è accaduto a Hollywood e nelle altre città dove si produce buon cinema.
Ma The Hurt Locker, nonostante queste considerazioni, il premio lo merita, eccome. Non tanto in base alle consuete motivazioni alla “Davide contro Golia”: se alla fine i favoriti erano questo film e Avatar di James Cameron, che da mesi straccia (con merito, avendo spostato le frontiere cinematografiche di qualche decennio) record di incassi in tutto il mondo, è gioco forza che i cinefili pauperismi parteggiassero per il “piccolo” film.
Se poi pensiamo che la Bigelow è la prima donna a vincere i principali premi nonché l’ex moglie di Cameron (per meno di due anni, vent’anni fa…), è facile capire perché i commenti sul filo del femminismo si stiano sprecando. Poi, ovviamente, c’è chi la butta in politica: chi esalta il film a priori, perché è contro la guerra; e chi, dallo stesso versante ideologico, lo condanna perché non lo è abbastanza, anzi risulterebbe ambiguamente a favore dei marines che rischiano la pelle come artificieri e sminatori in Irak.
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Ma l’Oscar, che è un premio meno ottuso di quanto noi europei continuiamo a dipingerlo, è andato in buone mani perché The Hurt Locker (letteralmente “la cassetta del dolore”, dove finiscono i resti e gli oggetti personali di chi salta per aria per l’esplosione di un ordigno) è soprattutto un grande film, tra i migliori prodotti in America negli ultimi anni.
Non è mai simpatico citarsi, ma l’avevamo scritto con forza sul Sussidiario e su Sentieri del Cinema, ancora sotto l’effetto dei fischi e degli insulti di critici e aspiranti tali (con gli occhi coperti da paraocchi ideologici) alla Mostra di Venezia 2008 dove fu mostrato in anteprima mondiale.
Ci emozionò perché «il film è una riflessione sulla guerra che spiazza», ma anche «grande cinema, con tutti gli strumenti che ci si aspetterebbe da un film di guerra: azione, tensione, ritmo, capacità di suscitare angoscia e pietà». Pietà per le vite dei soldati – un gruppo di soldati, che cerca di rendere inoffensive bombe nascoste ovunque per le strade dell’Irak – e per le vittime civili, povera gente ostaggio della follia dei kamikaze. E non c’è sconto però sulla negatività della guerra: il protagonista è un uomo dipendente dall’adrenalina che gli suscita il pericolo, una droga di cui non riesce a fare a meno.
Come mostra il finale, giocato tra l’amarezza per l’impossibilità del ritorno alla normalità (e agli affetti) e il senso di una missione, di un compito forse intuito – oltre quella vertigine di sprezzo per la morte sempre dietro l’angolo – dopo un incontro fortuito: quello con un ragazzino iracheno, che contribuisce a cambiare l’approccio alla guerra e al pericolo del sergente James.