L’arresto di Jafar Panahi non può non allarmare la comunità, cinematografica e civile, internazionale. Ancora una volta, un regime dispotico cerca di chiudere la bocca alle libere espressioni. E il regime dell’Iran degli ayatollah e del presidente Mahmoud Ahmadinejad non solo non fa eccezioni ma è tra i più ferrei nel contenere prima e reprimere adesso le personalità più coraggiose. E di coraggio ne ha sempre avuto molto Jafar Panahi, più di altri maestri del cinema iraniano.

Ma forse, in attesa di forme di protesta più forti (ci saranno?) delle prese di posizione istituzionali prese finora in Italia, è il caso di ricordare il suo valore di artista a chi non lo conosce come merita.

Panahi, nato nel 1950, si inserì a metà anni 90 nel solco di quel cinema esploso ormai da qualche tempo all’attenzione dei festival internazionali: assistente di uno dei due caposcuola riconosciuti, Abbas Kiarostami (l’altro è Mohsen Makhmalbaf), nell’entusiasmante Sotto gli ulivi (1994), Panahi debuttò come regista con Il palloncino bianco (scritto proprio da Kiarostami), con cui vinse la Caméra d’or al Festival di Cannes per il miglior esordio.

Il palloncino bianco, che ebbe un buon successo, è una delicatissima storia sull’infanzia. Una bambina vaga per Teheran con i soldi che la madre le ha dato per comprare un pesciolino; ma quella banconota, messa a rischio più volte dal candore della bimba, si perde con grande dolore della piccola. Che si mette alla sua ricerca con l’aiuto di persone che incontra sul suo cammino.

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Un film pieno di poesia, che attirò l’interesse del pubblico e fece conoscere il nome di Jafar Panahi ai critici di tutto il mondo. A questa folgorante opera prima seguirono altri film, sempre premiati: Lo specchio vinse il Pardo d’oro al festival di Locarno, sempre con una bambina come protagonista (che attende invano la madre, in ritardo, che dovrebbe prenderla a scuola) e con un interessante meccanismo di riflessione sulla finzione cinematografica.

Il cerchio (coprodotto con alcune case italiane), il suo film più maturo, che vinse a Venezia il Leone d’oro con la dura rappresentazione della condizione femminile in Iran attraverso le vicende di otto donne che finiranno – per motivi diversi – in prigione.

Oro rosso (scritto da Kiarostami), vincitore della sezione Un certain regard di Cannes, su una rapina che finisce male che svela un realtà di degrado e miseria; infine, Offside (Orso d’argento a Berlino nel 2006, non distribuito in Italia), storia di una ragazzina appassionata di calcio che si traveste da uomo per poter entrare allo stadio (che le è vietato in quanto donna).

 

 

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Tutti film notevoli, di un autore tanto sobrio nello stile quanto efficace nella narrazione, che non si perde mai – come talvolta, negli ultimi anni, gli stessi Kiarostami e Makhmalbaf un po’ a corto di ispirazione, e soprattutto i loro numerosi epigoni – in vezzi stilistici e ricercate forme espressive.

Panahi, davvero debitore di quel neorealismo italiano cui si rifece la scuola iraniana agli albori della sua rinascita consegna allo spettatore storie osservate con partecipazione e rigore al tempo stesso senza dare l’impressione di giocare sull’emozione altrui.

 

E se Il palloncino bianco e Il cerchio sono i suoi capolavori imperdibili, tutti i suoi film facevano prevedere problemi con la ferrea censura iraniana, che non lo ha mai amato (una censura che diffida di qualsiasi regista locale che abbia contatti con festival e platee internazionali, anche per le storie più semplici).

Ma se nei suoi primi film certi aspetti critici della società iraniana si dovevano leggere tra le righe, da Il cerchio in poi (durissimo atto d’accusa contro un sistema che schiaccia la donna come ogni essere debole) i suoi film hanno sempre messo in luce i guasti del regime, anche in forme più vicine alla commedia come l’ultimo Offside. Panahi si è sempre salvato dalle forbici censorie, ma a costo della visibilità dei suoi film (praticamente non distribuiti in patria, come peraltro accade sempre più spesso ai suoi colleghi).

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Ma è recente il suo finire in una vera lista nera del governo iraniano. Da quando, l’estate scorsa, appoggiò il movimento che lo contestava e soprattutto partecipò a una commemorazione di Neda Aqa-Soltan, la ragazza uccisa durante i disordini post-elettorali del giugno 2009.

Il primo arresto fu quello, infatti, del luglio scorso. Rilasciato, Panahi non se n’è stato “sotto coperta”, ma anzi si è fatto revocare la possibilità di uscire dall’Iran dopo aver sostenuto pubblicamente le ragioni dell’opposizione al festival Montreal, dove si presentò con i colori verdi del movimento antigovernativo.

Ai festival successivi, tra cui la recente Berlinale, all’autore non è stato permesso di partecipare. Ora, la notizia del nuovo arresto. Nella speranza che venga presto rilasciato non si può non far notare come siano un po’ timidi gli appelli per il suo rilascio da parte delle associazioni degli autori di cinema italiani (e internazionali): severi nei toni, ma molto più “routinari” che in altre occasioni.

Si invita tutto il mondo culturale a una manifestazione di protesta: per altri argomenti, come i tagli governativi ai finanziamenti alla produzione, la si organizza direttamente la protesta, senza demandarla ad altri soggetti…

 

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Si invitano tutti i cineasti a far sentire la loro voce, ma singolarmente nessun grande nome si è espresso, come invece avvenne per l’arresto di Roman Polanski (fatto su cui personalmente chi scrive ha forti perplessità, essendo avvenuto a oltre trent’anni dal reato commesso, ma che era formalmente legittimo essendo stato condannato).

Dove sono i grandi difensori della libertà di espressione, che urlano al regime in Italia e non si scaldano più di tanto contro un regime che davvero fa male come quello iraniano? Facile fare gli indignati speciali in una situazione protetta come quella nostrana, meno prendere posizione in un caso quanto meno strano da maneggiare con i paraocchi ideologici (l’Iran è pur sempre nemico degli “odiati” Stati Uniti – per quanto non ci sia più Bush – e Israele).

Però che non si senta la voce di un grande regista come Nanni Moretti, che nel suo cinema romano Nuovo Sacher ha dato spazio ai vari film di Jafar Panahi e accompagnò il suo Il palloncino bianco con un gustosissimo cortometraggio (La sera della prima di Close-Up), dispiace davvero.