Il recente annuncio dei candidati ai David di Donatello – l’equivalente degli Oscar per il cinema italiano – sono la celebrazione del consenso di alcuni film ma anche il bilancio di un’annata. Un anno un po’ strano, perché – a differenza degli Oscar e di altri premi nazionali, come i Césars francesi o i Bafta inglesi – non sono assegnati sulla base di un anno solare, ma di una stagione “sfalsata”, da primavera a primavera: in questo caso, precisamente, da metà di marzo 2009 a metà di marzo 2010. questo per evitare di danneggiare i film di periodi molto forti (come i primi mesi dell’anno), mentre in teoria dalla primavera in poi di film italiani ne escono meno (soprattutto d’estate). Questi pochi, corrono il rischio di essere dimenticati l’anno dopo.
In realtà, quest’anno concorrono ad alcuni premi importanti – che saranno assegnati nella serata di gala di premiazione il 7 maggio a Roma – alcuni film di aprile e maggio del 2009, da Questione di cuore (i due protagonisti Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart sono rivali nella categoria migliori attori protagonisti) e Fortapasc (la sceneggiatura, il produttore Angelo Barbagallo, il protagonista Libero De Rienzo nei pani del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla Camorra) a, soprattutto, Vincere di Marco Bellocchio: tra i film con maggiori “nominations” (ben 15), è in gara per il miglior film. Peraltro per questo premio, il più ambito, concorrono anche gli altri film maggiormente candidati: La prima cosa bella di Paolo Virzì (18 candidature), L’uomo che verrà di Giorgio Diritti (16 candidature), Baarìa di Giuseppe Tornatore (14) e Mine vaganti di Ferzan Ozpetek (13).
Candidati più forti, e anche in linea di massima condivisibili o che quanto meno non suscitano scandalo. Anche se le polemiche sono scoppiate comunque: soprattutto da parte di Carlo Verdone, che in effetti con Io, loro e Lara (tra i suoi migliori film recenti) sperava di avere le carte in regole almeno per la cinquina, o comunque per qualche candidatura (invece al film ne è arrivata solo una, per l’attore non protagonista Marco Giallini).
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Ma potevano essere meglio considerati anche Baciami ancora di Gabriele Muccino (solo tre candidature, e di poco peso), e tre film rimasti a bocca asciutta: L’uomo nero di Sergio Rubini (con attori in gran forma: oltre allo stesso Rubini, Valeria Golino e Riccardo Scamarcio) e due film di Pupi Avati, Gli amici del bar Margherita e Il figlio più piccolo, almeno per qualche interpretazione (nel secondo sorprende un intenso Christian De Sica in un ruolo drammatico).
Si è parlato come altre volte in passato, con molta faciloneria, di complotto contro il genere della commedia. Con quasi 1600 giurati, scelti all’interno delle categorie professionali del cinema, che compongono l’Accademia del Cinema Italiano – David di Donatello, i complotti sembrano impossibili (poche altre “accademie” hanno tanti giurati). In realtà, l’unico problema è in un meccanismo che chiede di votare fin dal primo giro, quello delle candidature, un solo nome per categoria e non una rosa di nomi: inevitabilmente, si tende a puntare sul candidato che si spera possa vincere. Escludendo film, attori, registi “outsider”, che potrebbero arrivare almeno alla nomination.
Ma alla fine le scelte sono sostanzialmente corrette. Sì, perché La prima cosa bella è un film magistralmente diretto dal livornese Virzì, che nella sua città racconta la vita controversa di una donna e il rapporto con marito e figli, rapporto che segna fratello e sorella anche da adulti: e Virzì, che pure in qualche momento non governa alla perfeziona una materia fin troppo ricca di fatti e sentimenti, è bravo nel passare di continuo dal riso al pianto.
Come cerca di fare, e fa in parte, Ferzan Ozpetek in Mine vaganti: che commuove molto meno, ma fa ridere altrettanto almeno nella prima parte; finché la “morale” gay e progressista, di conflitti familiari risolti un po’ troppo facilmente, non prende il sopravvento. Ma è certo uno dei suoi film più riusciti, grazie soprattutto a una serie di ottimi attori (su tutti, Ennio Fantastichini non a caso candidato a un premio).
Di Baarìa si è parlato a lungo quest’anno: Tornatore, come spesso gli capita, ha diviso pubblico e critica in sostenitori e detrattori, e certo il suo film non è il capolavoro “definitivo” su un secolo di storia di una famiglia e Storia italiana che qualcuno si aspettava. Ma è grande cinema, dal punto di vista visivo e come ambizioni (meno come compattezza narrativa), e non sfigura certo tra i migliori film. Di Marco Bellocchio, regista idolatrato da certa critica quanto non sempre “digeribile” dal pubblico, non siamo particolari estimatori: ma Vincere, nonostante la solita e irritante “tara” ideologica anticlericale (la Chiesa ne esce peggio di Mussolini, dal film), è un film di grande forza stilistica e che si fa seguire meglio che in altri casi.
Con un superbo Filippo Timi nella parte del Duce, e poi del figlio segreto (meriterebbe il premio come protagonista: glielo daranno?). Ma il nostro favorito, e preferito, come miglior film e per altre statuette è quello del regista meno noto. Con L’uomo che verrà, di cui avete già letto in altre occasioni su questo sito, Giorgio Diritti (cinquantenne, ma solo al suo secondo film dopo Il vento fa il suo giro) fa onore alla sua formazione alla scuola di Ermanno Olmi. Con uno stile asciutto, sobrio ma intenso e coinvolgente racconta – in un dialetto bolognese antico (con sottotitoli) che restituisce verità alla vicenda storica – fatti tragici avvenuti sul finire della seconda guerra mondiale sintetizzati nella definizione di “strage di Marzabotto” (in realtà furono più d’una).
E raccontando la dignità delle vittime e l’orrore della violenza dei carnefici nazisti e fascisti, riesce miracolosamente a mettere l’accento su una speranza affidata allo sguardo puro di una bambina, fragile e forte. Che con tenacia non si arrenderà all’orrore ma farà prevalere la vita. Il film italiano più bello dell’ultimo anno, senza dubbio, che non ha avuto finora grande successo: forse i David di Donatello potrebbero aiutarlo a essere visto di più, come merita.