Il rischio, fondato, era rimanere assenti quest’anno dalla grande kermesse di Cannes (dal 12 al 23 maggio). Le premesse di partenza non erano ottimali: pochi film pronti importanti, qualche buona scommessa – ma di quelle che il festival francese va a cercarsi in altre cinematografie, più marginali o con una maggior consuetudine con la Croisette dal punto di vista della ricerca e della sperimentazione – e qualche presentimento negativo.
Il titolo più accreditato era La nostra vita di Daniele Luchetti, che però solo tre anni fa con il suo ottimo Mio fratello è figlio unico rimase confinato al Certain Regard. Normale che si temesse un bis: Luchetti (di cui trovate in altra pagina alcune dichiarazioni) non è uno di quei registi che partono “blindati” con i selezionatori di Cannes (in concorso ci andò solo con Il portaborse, vent’anni fa, ma in quel caso c’era Nanni Moretti di mezzo; come nel suo film d’esordio Domani accadrà, da Moretti prodotto, che finì direttamente al Certain Regard). Per fortuna, è andata diversamente e così La nostra vita, con un intenso Elio Germano, concorrerà alla Palma d’oro difendendo così i colori del cinema italiano.
Mentre in giuria, quasi a sottolineare una rinnovata simpatia per il nostro cinema dopo alti e bassi del passato, ci sono – cosa più unica che rara – due nomi italiani: l’attrice Giovanna Mezzogiorno e il critico Alberto Barbera, direttore del Museo nazionale del cinema di Torino ed ex direttore del festival di Torino e della Mostra di Venezia. Giuria che, presieduta dal regista americano Tim Burton, vede anche l’attrice britannica Kate Beckinsale, lo scrittore e regista francese Emmanuel Carrere, l’attore Benicio Del Toro, i registi Victor Erice e Shekhar Kapur; inoltre è stato invitato anche il cineasta iraniano Jafar Panahi, arrestato due mesi fa dal regime di Teheran e ancora in carcere.
Al momento di scrivere questo articolo, dopo la presentazione ufficiale alla stampa, erano solo 16 i titoli in concorso ma era già certo che altri se ne sarebbero aggiunti (papabili Miral di Julian Schnabel e soprattutto Tree of Life di Terrence Malick, la cui corsa contro il tempo per ultimare il film è attesa fino all’ultimo dal direttore Thierry Fremaux).
Sui 16 di partenza, ben quattro sono prodotti dai padroni di casa: dal maestro Bertrand Tavernier con La princesse de Montpensier (che racconta una storia di aristocratici del XVI secolo) al franco-algerino Rachid Bouchareb con Hors la loi (sulla lotta di indipendenza dell’Algeria) a due attori-registi come Xavier Beauvois con Des Hommes et des Dieux (sul rapimento di sette monaci francesi in Algeria nel 1999, da parte del Gruppo Islamico Armato) a Mathieu Amalric con Tournée. C’è ancora Italia con il film dell’iraniano Abbas Kiarostami, Copia conforme, con la “madrina” del festival (che campeggia anche nella locandina ufficiale) Juliette Binoche, film girato in Toscana e coprodotto da Angelo Barbagallo.
Ma c’è anche il Messico con Alejandro Iñárritu (Biutiful, con Javier Bardem), la Russia con Nikita Mikhalkov che porta al festival Sole ingannatore 2, sequel del film che gli fece vincere il Gran Premo della Giuria (nonché l’Oscar come miglior film straniero), il Giappone con Takeshi Kitano (Outrage), la Gran Bretagna con Mike Leigh (Another Year, con i prediletti Jim Broadbent e Imelda Staunton), la Corea del Sud con Lee Chang-dong (Poetry) e con Im Sang-soo (Housemaid), la Thailandia con Apichatpong Weerasethakul (Loong boonmee raleuk chaat). Tutti autori già ben noti al festival e alle platee mondali.
Da notare anche che è il cinema americano a essere poco rappresentato (ma siamo certi che le aggiunte dell’ultima ora lo abbiano rafforzato) con un solo titolo sicuro come Fair Game di Doug Liman in cui le star Sean Penn e Naomi Watts che rievocano la vicenda oscura dell’ambasciatore Joseph Wilson e della moglie agente segreto Valerie Plame (che fu messa in serio pericolo da una fuga di notizie, voluta per vendicarsi delle denunce del marito contro il dossier Irak). Infine, le due scommesse quest’anno vengono dal Ciad, con Un homme qui crie (coprodotto con la Francia) di Mahamat-Saleh Haroun, e dall’Ucraina con You, my joy di Sergei Loznitsa.
Peraltro, per un festival così attento al mercato da essere ancor più importante per il Marché e i suoi scambi che per i premi internazionali, a brillare sono anche i titoli fuori concorso, senza parlare delle rassegne laterali, sia ufficiali (il Certain Regard, che per essere il luogo della sperimentazione gioca a sorprendere con Socialisme dell’80enne Jean-Luc Godard e O Estranho Caso de Angelica dell’ultra centenario Manoel de Oliveira) che “esterne” (Quinzaine des realisateurs e Semaine de la critique). E fuori concorso, oltre al film d’apertura Robin Hood di Ridley Scott (con Russell Crowe e Cate Blanchett) in contemporanea con l’uscita in tutto il mondo, ci saranno altri titoli molto attesi: You Will Meet a Tall Dark Stranger di Woody Allen (con il suo super cast: Anthony Hopkins, Naomi Watts, Antonio Banderas, Josh Brolin e Freida Pinto) che ha rifiutato il concorso, Wall Street Money Never Sleeps di Oliver Stone (sequel del suo celebre film degli anni 80, con Michael Douglas di nuovo Gordon Gekko insieme a Shia LaBeouf, Josh Brolin e Carey Mulligan) e Tamara Drew di Stephen Frears, ma anche Chantrapas di Otar Iosseliani e l’opera prima dell’attore messicano Diego Luna con Abel; per l’Italia Draquila, il caustico documentario di Sabina Guzzanti su L’Aquila e il dopo terremoto. Secondo titolo italiano dopo quello di Lucetti. Ma quando leggerete questo articolo speriamo che dalle sezioni collaterali, ma fondamentali, come Quinzaine e Semaine sia arrivato almeno un altro film italiano.