I verdetti assegnati domenica sera al festival di Cannes non sono così sorprendenti come potrebbero sembrare a un osservatore distratto. La Palma d’oro è andata a un regista tanto sconosciuto al pubblico quanto di culto tra i critici e gli addetti ai lavori (come lo sono i giurati: attori e registi soprattutto, con un solo critico, l’italiano Alberto Barbera): il thailandese Apichatpong Weerasethakul, con il film dal titolo altrettanto ostico Uncle Boonme Who Can Recall His Past Lives (ovvero, lo zio Boonme può richiamare le sue vite precedenti). Film di nicchia come non mai, ad accentuare una tendenza in voga a Cannes ma anche a Venezia, Berlino e Locarno (in quattro festival principali; ma cresce moltissimo Toronto, che ha il pregio di assegnare solo un premio del pubblico basato su tutti i titoli presentati: non ci sono pochi eletti in concorso e poi tanti fuori gara). Tendenza a nostro parere pericolosa e nefasta, che rischia di compromettere la funzione dei festival ma anche di mettere definitivamente in crisi il concetto di cinema d’essai o d’autore: se è quello che vince nei festival e che risulta poco commestibile anche a cinefili di forte frequentazione cinematografica, siam messi male…

Perché il film del regista dal nome e cognome impronunciabile, i cui precedenti film sono stati visti in Italia da pochissime persone o neppure distribuiti, è tutto fuorché un film che possa essere visto da platee “normali”, pur di gusti colti e selettivi (non insomma quelli che vogliono vedere Iron Man e Robin Hood). Si parla di un uomo in fin di vita che riflette sull’esistenza e dei suoi stati d’animo, si narrano strane visioni con il fantasma della moglie defunta e con il figlio da tempo sparito nella giungla e ritornato sotto forma di fantasma dall’aspetto di gorillone con gli occhi rossi luminescenti (ma in piena naturalezza, tutti quanti – vivi, fantasmi e morti – parlano tranquillamente insieme a tavola in veranda…), si vedono principesse rivitalizzate da pesci gatto sorprendenti… Una metafora delle idee buddiste del testo che dà origine all’opera e delle convinzioni del regista sulla reincarnazione delle anime. Interesse per lo spettatore medio (non solo occidentale), tanto disprezzato in alcune dichiarazioni dello stesso regista (“il mio film non è per tutti”) ma anche da tanti critici? Nullo.

Le conseguenze su un festival che già in passato preferiva Rosetta dei pur bravi fratelli Dardenne a Tutto sua mia madre di Almodovar, Elephant di Gus Van Sant a Mystic River di Clint Eastwood e, un anno fa, Il nastro bianco di Haneke a Bastardi senza gloria di Tarantino (o Il mio amico Eric di Ken Loach, che ha pagato l’ardire di far sorridere e far terminare bene una sua storia): sempre più serie, per il futuro. C’è da dire, a parziale difesa della giuria presieduta da Tim Burton e con ben due italiani (oltre a Barbera, che è anche un ex direttore della Mostra di Venezia, anche l’attrice Giovanna Mezzogiorno), che mai come quest’anno ci deve essere stato imbarazzo, a fronte di un concorso di rara modestia. Pochissimi i film che hanno convinto davvero, dai consensi unanimi. E alcuni di questi, come Another Year del già vincitore Mike Leigh, non tali da sembrare film particolarmente innovativi.

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In compenso, vari film brutti, parecchi noiosi, altri interessanti ma non di più, con spunti iniziali compromessi da sviluppi faticosi o confusi. In questo contesto, personalmente temevamo vincesse proprio un esponente di quel cinema “povero” che i grandi festival esaltano oltre i propri meriti; quasi a scontare il peccato di inseguire divi hollywoodiani senza ritegno: ma quest’anno in tanti hanno dato buca, e la serata inaugurale affidata al Robin Hood di Ridley Scott, che si poteva già vedere in tutti i multiplex italiani (e del resto del mondo) dal primo pomeriggio ha dell’esilarante. Ma se doveva vincere un esponente del cinema “terzomondista”, il vincitore era l’indiziato numero 1. Qualcuno temeva la vittoria del sopravvalutato messicano Alejandro Inarritu (quello di 21 grammi e Babel), ma il consueto campionario di tragedie accumulate come colpi bassi per lo spettatore non ha convinto neppure i giurati, salvo dare un premio al bravo Javier Bardem come attore protagonista di Biutiful ex aequo con l’italiano – e altrettanto bravo – Elio Germano, la cui prova è la cosa migliore di un film interessante ma non convincente al 100% come La nostra vita di Daniele Luchetti.

Tra le attrici, giusto premiare la magnetica Juliette Binoche per Copia conforme dell’iraniano Abbas Kiarostami, girato in una splendida Toscana; film un po’ intellettuale e molto parlato, ma aggraziato e con buoni tocchi psicologici. Anche Kiarostami, come Mike Leigh, aveva già vinto a Cannes: e stavolta non aveva uno dei capolavori che riusciva a sfornare a ripetizione nella prima parte degli anni 90. Tra gli altri premiati, peraltro, qualcuno poteva ambire al riconoscimento maggiore: se Tournée del neo regista e attore Mathieu Amalric è solo un divertissment (su un gruppo di spogliarelliste del burlesque) che solo la modestia dei tempi può aver portato alla miglior regia (a Cannes, una volta, un esordiente non avrebbe mai vinto questo premio), hanno a tratti toccato il cuore Un Homme qui cri di Mahamat-Saleh Haroun (regista del Ciad, già premiato a Venezia per il commovente Daratt) e Poetry del coreano Lee Chang-dong, cui sono toccati premi minori (Gran Prix e sceneggiatura, rispettivamente).

È andato a un passo dalla vittoria quello che, a nostro avviso, aveva le carte migliori per la Palma d’oro e che si è fermato invece al secondo alloro: Gran Premio della giuria. Si tratta del francese Des hommes e des dieux di Xavier Beauvois, che rievoca una pagina di storia recente poco conosciuta. Ovvero le vicende di un gruppo di monaci trappisti che nei primi anni 90 riuscirono a realizzare un clima di amicizia e condivisione con la popolazione musulmana in Algeria, prodigandosi anche per curare malattie gravi in terre desolate. Non bastò a salvarli dall’odio di un gruppo di fanatici terroristi islamici (anche se in una bella scena anche il loro capo sembra riconoscere il valore di quei monaci) che in una fredda notte d’inverno li strapparono dai loro modesti letti e li portarono via dal loro convento. Li ritrovarono massacrati in mezzo ai campi innevati: uccisi dai terroristi o dai colpi dell’esercito regolare che li inseguiva? Il regista non prende posizione e il film non lo esplicita. In ogni caso, un martirio – ma anche un esempio di dedizione a Cristo e al prossimo – che è bene raccontare e far vedere. Un buon film, forse non un capolavoro: ma in un’annata senza squilli, la Palma d’oro più giusta era la sua.