In una poco amena periferia romana, una donna di mezza età trova una bambina di due anni abbandonata in un parco giochi. Unico indizio per capire chi sia e chi l’abbia lasciata lì è un biglietto che la donna trova nella tasca del giubbottino: un messaggio da parte della madre (sconsiderata) a chi avrebbe ritrovato la bimba, di pazientare e tenerla con sé in attesa del suo ritorno.

Un messaggio misterioso e anche un po’ assurdo (come potrebbe la madre ritrovare chi ha preso in custodia la piccola?), che porta la non più giovane Patrizia a fare delle scelte. Artista circense inserita in una comunità non più nomade ma certo con una stabilità particolare (a partire dalle case-roulotte), lei e il marito tedesco si interrogano sul da farsi: se lui propende per chiamare la polizia, ed evitare guai, la donna – forse anche spinta da un istinto materno mai concretizzatosi nella sua vita – convince il coniuge a tenerla con loro, in un certo senso adottandola.

Con loro, si fa carico della piccola Asia – chiamata affettuosamente la “pivellina” – anche il resto del piccolo gruppo di circensi, ma soprattutto un ragazzo di tredici anni di nome Tairo che la tratta come un fratello maggiore, curandola e giocandoci in modo tenero e attento. Tairo ha una storia particolare: la separazione dei genitori fu un trauma infantile, che sembra superato (sembra più maturo e sereno di quanto si possa chiedergli), ma che deve avergli lasciato un desiderio di “normalità”, di stabilità affettiva, di famiglia.

Tra l’affetto per Asia e la paura di perderla (procura un grosso spavento una perquisizione della polizia), lo strano gruppo di personaggi – ormai conquistati da quel rapporto imprevisto e dirompente sulle loro vite, che cresce giorno dopo giorno nella più totale normalità delle cose quando ci si prende cura di una bambina così piccola – attende con timore il possibile ritorno della madre, disagio che diventa quasi angoscia quando un nuovo misterioso biglietto annuncia l’imminente palesarsi della donna.

Le ultime giornate sono contrassegnate dal preparare un distacco sentito come uno strappo duro a sopportare, ma anche come un passo necessario per la bimba cui sarebbe ingiusto negare la vera madre. Ma l’attesa si prolunga oltre il previsto, e quando la bimba si addormenta si teme forse di non poterla più salutare…

In genere non amiamo raccontare troppo di un film. Se in questo caso contravveniamo a questa regola aurea, e ci spingiamo fin quasi sulla soglia di un finale aperto quanto non mai (e quindi, almeno non sciogliamo enigmi né sveliamo colpi di scena) è perché questo è un film particolare. Piccolo e grande.

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Si tratta in effetti di un piccolo film, prodotto e diretto con pochi soldi da una regista italiana altoatesina e dal marito austriaco – anche se recitato in italiano, perché ambientato appunto a Roma – e quasi impalpabile nei suoi elementi, con attori non professionisti presi dalla strada, o meglio dal mondo circense.

 

Una povertà che potrebbe spiazzare chi è abituato al cinema professionale, ben confezionato, di pura finzione e con attori veri. Qui, sembra di stare quasi nell’ambito del documentario (da cui provengono i due registi) anche per la conoscenza della realtà romana e circense già sondata in un altro lavoro e per il verismo totale degli ambienti e delle situazioni.

 

Ma il risultato (sottolineato da tanti premi vinti dal film, fra un cui un riconoscimento in una rassegna collaterale al festival di Cannes 2009) è una pellicola commovente come non mai, in grado di aprire inquietudini profonde sull’infanzia, la famiglia, i rapporti (come, per esempio, nella divertente ma sensibile rievocazione di Tairo che da piccolo urla “voglio morire” perché i genitori si sono separati).

 

Un film da vedere senza preclusioni per la povertà oggettiva di mezzi e stile (ma funzionali all’oggetto, e quindi con il passar dei minuti assolutamente necessari): superato lo scoglio iniziale, se ne può ricavare il regalo che il miglior cinema riesce a produrre: quello di un’emozione vera e non effimera.

 

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Trailer fornito da Filmtrailer.com