Elena e Claudio si amano, tanto. Sono davvero belli da vedere insieme, giovani ma con già due figli e un terzo in arrivo. Lui lavora tanto, come operaio nei cantieri di edilizia alla periferia di Roma, ma lascia spazio agli affetti e alla famiglia. Che è anche quella costituita dal fratello, più vecchio e più bello ma anche timido con le donne e sempre da solo, e dall’energica sorella con marito e figli.
Poi la moglie muore improvvisamente, proprio mentre dà alla luce il terzo figlio. A Claudio crolla il mondo addosso: urla tutta la sua rabbia (al funerale, nella scena toccante ma enfatica della canzone di Vasco Rossi – amata da entrambi, tanto che il bimbo viene chiamato Vasco – gridata a squarciagola), si incattivisce, decide di giocare sporco nel lavoro.
Il suo obiettivo diventa arricchirsi, in modi poco leciti, per risarcire i figli della perdita della madre e almeno poter loro concedere giochi e capricci di ogni tipo. Ma per far questo si imbarca in operazioni spericolate, che rischiano di farlo saltare per aria. Mentre un cadavere occultato per paura lo tormenta e lo porta ad avvicinarsi al figlio della vittima.
Il film che è valso al protagonista Elio Germano il premio come miglior attore protagonista (ex aequo con Javier Bardem) al festival di Cannes 2010 si regge in gran parte sulla prova del bravo attore trentenne: la cosa migliore di un film interessante, ma non del tutto convincente.
La nostra vita di Daniele Luchetti mette generosamente sul piatto tanti temi e spunti interessanti: l’impossibile compensazione del dolore con la ricchezza e i beni materiali, la solidarietà della famiglia, la paternità diretta ma anche quella vissuta nei confronti di un adolescente che è rimasto orfano (ma non lo sa ancora).
E sul piano sociale, di descrizione (efficace) di uno spicchio di mondo del lavoro (in nero): l’ambizione di diventare “padroncino”, l’aspirazione a essere uguale ai suoi operai, le tensioni che presto emergono con essi. Il regista e alcuni critici parlano anche di metafora dell’Italia, ma si può fare anche a meno di questa lettura politica e gustarsi lo stesso il film. Che però ha il difetto di condensare troppi fatti, svolte, personaggi in poco più di un’ora e mezzo e quindi di farlo a passo di carica.
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Certi passaggi, che richiederebbero l’evoluzione del protagonista o di altri personaggi, si riducono a pochi rapidi momenti, rischiando di compromettere la veridicità di cambiamenti che vorrebbero essere profondi. Luchetti, in passato, non ha brillato di gran profondità: e se l’ultimo suo film, Mio fratello è figlio unico, si poggiava su un romanzo solido e ben strutturato come Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, stavolta inventare tutto partorisce una storia bella ma non rifinita, che lascia un po’ di amaro in bocca.
Intendiamoci: rimane un buon esempio di cinema italiano, interessante e valido, sia per le prove degli attori (Luchetti dà il suo meglio nel dirigere gli interpreti: oltre a Germano, un inconsueto Raoul Bova, ma anche una dolce Isabella Ragonese, un laido ma di buon cuore Luca Zingaretti, una puntigliosa Stefania Montorsi) che appunto per molti spunti, battute, situazioni. Ma, per esempio, i figli rimasti orfani rimangono sullo sfondo e, a parte un paio di momenti, sembrano quasi non soffrire la perdita.
Sarà una scelta di concentrare tutto sul marito-vedovo, però allo spettatore può risultare una mancanza di sensibilità. Mentre il “realismo” dell’opera – nel rappresentare ambienti e personaggi umili, rabbiosi, scorretti – è più presunto che veritiero. Come quando il regista racconta che lo spunto per il film gli è venuto da un viaggio in Israele, in cui si accorse che laggiù c’erano tante coppie giovani con numerosi bambini piccoli.
Cosa impossibile – sostiene lui – da noi, per le troppe difficoltà economiche e sociali. Tipica posizione da autore che crede di conoscere la realtà, ma dal suo minuscolo osservatorio. Se la indagasse come facevano i veri neorealisti del dopoguerra (ah, il “pedinamento” di Zavattini!), si accorgerebbe che di famiglie così ce ne sono tante anche in Italia.
Per fortuna, in La nostra vita non si ironizza su di esse, anzi: la famiglia risalta come valore. Ma è un valore detto, non sentito o vissuto: e quindi suona paradossalmente retorico.