Continuiamo la nostra carrellata con il meglio della stagione cinematografica. Dopo i primi cinque film imperdibili, altrettanti sono i film che non si può non aver visto, o non recuperare, degli ultimi dodici mesi.
L’ultimo, fresco fresco è ancora in qualche cinema, ha rischiato di non arrivare in Italia. E invece, dopo il passaggio alla Mostra di Venezia – più apprezzato dal pubblico che dai critici – e dopo proteste e angosciosi dubbi sulla sua sorte (anche per il sanguinoso flop capitatogli in America), The Road è arrivato a fine maggio anche da noi.
Il film di John Hillcoat, dal romanzo premio Pulitzer di Cormac McCarthy, non è – come sostenevano i detrattori o certi distributori spaventati – un angoscioso e deprimente film sulla fine del mondo, ma un commovente viaggio nel cuore dell’uomo. Attraverso una storia dura, ma non senza speranza, in cui un padre e un figlio che hanno perso tutto (soprattutto la donna che ne era rispettivamente moglie e madre) scoprono di non aver perso il loro fortissimo rapporto. Messo a dura prova dall’Apocalisse che ha trasformato il Pianeta in un luogo di distruzione, morte e bestialità dei pochi sopravvissuti.
Dovranno attraversare tutto ciò, quell’uomo e quel bambino, verso l’obiettivo desiderato del mare e di un’umanità residua. Non succederà quasi niente di quel che speravano, ma succederà qualcosa, eccome. Il finale, come nel romanzo (che è uno dei capolavori della letteratura degli ultimi decenni e sicuramente ha qualcosa in più) di cui il film non è solo un calco ma un rispettoso e ottimo adattamento, strappa la commozione.
Come la strappa L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, il miglior film italiano dell’anno e vera opera d’arte anche nelle scelte stilistiche (fotografia meravigliosa, dialoghi in gran parte in dialetto), che rievoca stragi di innocenti da parte di nazisti e fascisti (la più tristemente famosa è Marzabotto) nel settembre 1944, nel bolognese.
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Non il “solito” film sulle malefatte naziste con ufficiali ghignanti e caricaturali, stereotipi e banalità assortite, ma un racconto che ci cala nella vita di povera gente semplice del popolo, che diventerà vittima della peggiore violenza, e poi nella follia di quel momento storico. Con tanti personaggi, dettagli e sequenze disegnate con acutezza e pietà. E il colpo d’ala di affidare il racconto allo sguardo di una bambina, atterrita e insieme fremente per la volontà di salvare il fratellino appena nato.
Una bambina dolcissima, diventata muta dopo un trauma ma che guarda e osserva tutto con candore e chiarezza al tempo stesso. Il suo sguardo diventa il giudizio del narratore, e l’accento del racconto cade così su una speranza quasi impossibile: l’ultima parola non è la morte, ma quel neonato che la sorellina difende con tutte le sue minuscole forze.
Altro periodo storico, altra violenza sanguinaria che nasce dall’ideologia: Popieluszko, diretto dal regista polacco Rafal Wieczynski, rievoca 25 anni dopo l’uccisione padre Jerzy Popieluszko, sacerdote nemmeno quarantenne che divenne a inizio anni ‘80 una spina nel fianco del regime comunista. Diventato per caso guida spirituale del sindacato libero Solidarnosc e per questo inviso al Potere, padre Jerzy non era un eroe bensì un prete mite, ma deciso, e innamorato di Cristo e del suo popolo, che riempiva le sue messe in maniera oceanica.
Rafforzato dall’ottima interpretazione del protagonista Adam Biedrzycki (davvero somigliante al sacerdote) e dall’inserimento di numerosi spezzoni documentari, con le vere immagini del prete polacco, di Lech Walesa e dei vari viaggi di papa Wojtyla nella sua terra, il film è sobrio ed emozionante al tempo stesso nel ricostruire quella stagione di risveglio della Polonia e le persecuzioni crescenti della polizia del regime. Che via via stringerà il suo cerchio attorno a lui, fino a rapirlo e ucciderlo barbaramente. Doveroso vederlo – sarà ripresentato anche al prossimo Meeting di Rimini – per ricordare un martire cristiano del nostro continente.
Concludiamo con due film certo più “leggeri”, due commedie anche se ricche di spunti dolorosi e drammatici. Commedie drammatiche, definizione apparentemente incomprensibile ma mai azzeccata come in questo caso. In Tra le nuvole di Jason Reitman (al terzo film, dopo gli eccellenti Thank you for smoking e Juno), il divo George Clooney è Ryan, un uomo che lavora per una società che appalta licenziatori a terzi, ovvero ad aziende e manager che non hanno il coraggio di farlo.
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In giro per l’America, sempre su un aereo – tanto che il suo unico obiettivo è una tessera fedeltà esclusiva per chi accumula milioni di miglia – Ryan è bravo ad addolcire la pillola ai dipendenti ormai senza lavoro con acume psicologico, che usa solo per “tecnica” professionale, senza alcun coinvolgimento. Se non che su un aereo conosce una donna, di nome Alex, con cui imbastisce un’intrigante relazione a distanza, che si rinnova nelle pause (per quanto ricercate con un certo impegno) tra un viaggio e l’altro.
Mentre un’altra donna, Natalie, giovane e rampante new entry della sua compagnia, irrompe nella sua azienda rischiando di far saltare il suo modo di vivere e lavorare, progettando un sistema di “telelicenziamenti” via monitor. Di una donna si innamora e dell’altra si affeziona come un padre, senza ammetterlo. Risultato: la sua vita non può più essere quell’assenza di legami esaltata in incontri motivazionali tenuti per lavoro, ma la realtà costringerà a implicarsi, rischiando di farsi male. E anche molto, ma con una nuova, dolorosa, consapevolezza.
Infine, Il mio amico Eric di Ken Loach: un film che ha un andamento opposto a Tra le nuvole. Parte spingendo forte sul pedale drammatico, come nella maggior parte dei film del regista “rosso” che ama e sa raccontare bene la classe operaia (i risultati migliori quando miscela durezza del vivere e ironia, come in Riff raff e Piovono pietre), e poi man mano conquista un’inedita leggerezza che si allarga in un finale positivo come non mai.
Di Eric, in questo film, ce ne sono due: uno è un postino la cui vita va a rotoli, tra storie d’amore andate a male, figli altrui da tirar su, problemi con alcol e soldi. Lasciata la moglie trent’anni fa, appena diventato padre, è stato poi abbandonato da un’altra compagna. I colleghi amici cercano di tirarlo su, ma è ormai depresso e sbandato, con due adolescenti per casa (figli della compagna) che gli danno solo problemi.
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Finché si palesa nella sua vita l’altro Eric, il suo mito, il grande Cantona: non lo incontra, no, ma l’ex calciatore francese del Manchester United (di cui lui è tifoso) gli appare come Bogart al Woody Allen di Provaci ancora Sam. E gli da consigli, lo sprona, lo aiuta. Fino ad aiutarlo a tirar fuori tutta la sua umanità, a riprovarci con una moglie persa da troppo tempo e ad accettare l’aiuto degli amici.
La miglior azione della carriera del suo eroe? Non un gol, infatti, ma un assist a un compagno di squadra. Di cui si fidava: “Devi sempre fidarti dei compagni di squadra”. Ovvero, degli amici.
(2 – continua)