Mai fidarsi delle anticipazioni dei mesi precedenti, per i festival principali. Doveva essere, per la Mostra di Venezia (dall’1 all’11 settembre), l’anno di Terrence Malick, magari di Clint Eastwood, certo del “solito” George Clooney oltre tutto con un film girato in Italia (The American), mentre si faceva affidamento addirittura sulla “venezianità” della coppia Johnny Depp-Angelina di The Tourist per avere altri divi importanti.

E, tra gli italiani, era già sicuro l’habituè Pupi Avati. Di questi, invece, non ci sarà nessuno, e sono assenze che pesano: peraltro non è da escludere un altro film in concorso a sorpresa ma sembra impossibile a questo punto che si tratti di Malick o di altri big. Con innegabile delusione generale rispetto alle previsioni nate dopo un debole festival di Cannes. Nel compenso il cinema italiano è rappresentato – come quasi sempre accade – da quattro film in concorso (sui 24 complessivi, tutti in anteprima mondiale): “Noi credevamo” di Mario Martone, lungo film (circa tre ore e venti) sul Risorgimento, “La passione” di Carlo Mazzacurati che promette divertimento intelligente, “La solitudine dei numeri primi” di Saverio Costanzo dal bestseller di Paolo Giordano e “La pecora nera”, opera prima di Ascanio Celestini, tratto da un suo spettacolo teatrale ambientato in un manicomio).

Il film che, nei fatti, avrebbe scalzato Avati dalla gara per il Leone d’oro. Se sia una scommessa o un azzardo lo si scoprirà al Lido: certo che dopo il caso di un anno fa, con “L’uomo che verrà” escluso all’ultimo dal concorso e “costretto” a rifugiarsi al festival di Roma, sarebbe meglio per Müller non fare altri errori. Sul fronte internazionale, come dicevamo ci saranno pochi divi e nomi celebri. E quindi c’è da sperare che emergano almeno le sorprese, anche se non mancano gli autori interessanti.

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I film più attesi sono quello di apertura, Black Swan di Darren Aronosfski (vincitore due anni fa del Leone doro con The Wrestler), con Natalie Portman, Wynona Ryder e Vincent Cassel, e poi – sempre per il concorso – gli altri americani (in tutto cinque): i “cult” Sofia Coppola (con Somewhere, girato in parte in Italia) e Vincent Gallo (Promises written in water), l’anziano Monte Hellmann (caro al presidente di giuria Quentin Tarantino: gli produsse l’esordio Le iene) con Road to Nowhere e la meno nota, ma apprezzata dalla critica, Kelly Richardt.

E poi le coproduzioni che coinvolgono l’Italia, Miral di Julian Schnabel con Freida Pinto (rivelatasi con The Millionaire) e La versione di Barney (dal romanzo di Mordechai Richler) con Paul Giamatti e Dustin Hoffman; tre francesi tra cui François Ozon (Potiche) e Abdellatif Kechich (Venus noire) che sfiorò la vittoria tre anni fa, lo spagnolo Alex de la Iglesia (Balada triste de Trompeta), il tedesco Tom Tykwer (Drei), il polacco Jerzy Skolimowski (Essential Killing) mentre dall’Asia amata dal direttore Müller arrivano il giapponese Takaski Miike, il vietnamita Anh Hung Tran, il cinese Tsui Hark. Nel complesso poche certezze, che le poche righe di sinossi nei cataloghi ufficiali non dipanano. Anche se tutto ciò può non voler dir nulla: anzi, la speranza è sempre che emergano nuovi talenti o si consolidino le promesse degli anni precedenti. Fuori concorso, assenti Clooney e Johnny Depp, ci saranno The Tempest (da Shakespeare) di Julie Taymor con Helen Mirren, Machete di Robert Rodriguez con Robert De Niro, Jessica Alba e Steven Seagal, The Town di Ben Affleck (opera seconda dopo il bel Gone baby gone) e poi i nuovi film di Andrei Lau, nonché il Leone d’oro John Woo, che porta il suo Jianyu.

E ancora,il film sul bandito Renato Vallanzasca firmato da Michele Placido (si prevedono polemiche) e Passione di John Turturro, documentario-omaggio alla canzone napoletana (appare anche Fiorello) realizzato nel nostro Paese. Il tutto in un festival che parlerà molto italiano anche nelle altre sezioni: circa quaranta titoli, di cui 29 lungometraggi, esclusa la retrospettiva sul cinema comico).