Questa volta Venezia è stata generosa con Sofia Coppola. Nel 2003 si presentò con la sua opera seconda, “Lost in Translation”, che non finì nemmeno nel concorso principale ma in quello dedicato alle opere sperimentali chiamato Controcorrente (e da un paio d’anni tornato a chiamarsi Orizzonti, senza più un secondo e inutile premio di serie inferiore). Quello che ancora oggi è il film migliore della figlia del grande Francis Ford (regista della trilogia del “Padrino” e di “Apocalypse Now” su tutti) non fu ritenuto degno di correre per il Leone d’oro, “onore” concesso invece quell’anno a solenni porcherie come i dimenticati (per fortuna) “Twentynine Palms” e “Imagining Argentina”.
Poi “Lost in Translation”, che presentava un Bill Murray straordinario e una deliziosa Scarlet Johannsson (che fu lanciata da quel film) si rifece con gli interessi vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura, a sottolineare l’incredibile gaffe veneziana dei selezionatori agli ordini di Moritz de Hadeln (che concluse lì la sua breve esperienza alla Mostra, ma per motivi legati a dissapori con il ministro Urbani). La rivincita – solo un gioco giornalistico: Sofia non è la classica cineasta supercompetitiva, e alla Mostra era comunque grata per la visibilità offerta – si completa ora proprio a Venezia, con il Leone d’oro per il suo nuovo film “Somewhere”.
Premio che ha fatto subito discutere: forse la giuria, presieduta dal suo ex fidanzato Quentin Tarantino, ha peccato di eccessiva generosità? In realtà il suo bel film si è giovato di un’edizione parecchio fiacca. Che di grandi pellicole nettamente superiori ai concorrenti non ne ha presentate, tanto da far scatenare un toto-Leoni della vigilia dove concorrevano oltre la metà dei film in lizza. Poteva andare molto peggio, bisogna ammetterlo. “Somewhere” è il miglior compromesso possibile: innanzi tutto perché è una storia, bella e autobiografica, che finisce in un modo sensato ed emozionante, e non un’accozzaglia di immagini slegate come troppo spesso succede ai grandi festival che lascia sbigottiti o perplessi quando partono i titoli di cosa.
E narra di un tema centrale nel miglior cinema contemporaneo, quello della paternità. In “Somewhere”, infatti, vediamo un padre il cui successo lo porta in giro per il mondo, lontano dall’affetto di una figlia – che vive con la madre, separata – troppo trascurata. La trama: La noia, gli eccessi, l’assenza di significato della lussuosa vita di un attore che alloggia in un hotel di Hollywood devono fare i conti con l’arrivo della figlia undicenne.
Lentamente, la ragazzina diventa il centro affettivo del padre, che dal coinvolgerla nelle abituali bizzarrie da star comincia interrogarsi sul loro stare insieme. Un film che gioca più su silenzi e ambientazioni che sui dialoghi, come nell’abitudine di Sofia Coppola (con qualche eccesso in questo senso che mancava nelle sue opere precedenti, più equilibrate) ma che fa emergere ineludibilmente una drammatica richiesta di senso. C’è appunto molto di autobiografico in “Somewhere”: in effetti vent’anni fa un’opera breve di Coppola padre – l’episodio “La vita senza Zoe” del film “collettivo” “New York Stories” (gli altri due episodi erano firmati da Martin Scorsese e Woody Allen) – aveva un tema analogo, con una bambina alle prese con le assenze dei genitori artisti. Insomma, è un’opera sentita, sincera, vera.
Non perfetta, e si può sospettare che lo smalto e la freschezza dei primi film (l’esordio folgorante Il giardino delle vergini suicide, il poco compreso e modernizzante Marie Antoinette) si stia già offuscando al quarto film. Ma averne di registi così. Anche perché il resto dei vincitori o aspiranti tali, alla Mostra 2010, hanno proposto quasi tutti film che hanno come denominatore comune il fatto di risultare respingenti per un pubblico “normale”, di amanti del cinema non fanatici, come invece circola nei festival. Se Sofia Coppola non eccede in dialoghi, altri film del concorso sembravano propagandare il ritorno al cinema muto; cui si sommava una recitazione sommaria, ambientazioni povere al limite dello squallore e avvenimenti scarsissimi con sequenze lunghissime ed estenuanti a mostrare fatti della vita (“le parti noiose” come diceva Hitchcock) di cui si potrebbe fare a meno.
A un certo punto della Mostra, pareva che tra i favoriti ci fossero il film russo Ovsyanki di Aleksei Fedorchenko (lungo viaggio di un uomo con il cadavere della moglie per darle l’ultimo addio) o il cinese The Dutch di Wang Bing (ma prodotto con soldi europei), che a un tema nobile – la descrizione della terribile vita dei dissidenti nei campi di concentramento in Cina negli anni 50 e 60: il film è stato girato dal regista nel suo Paese ma in gran segreto – non fa corrispondere il rispetto della regola aurea del cinema: saper appassionare.
E se “Balada triste de trompeta” dello spagnolo Alex de la Iglesia (un imitatore – senza il suo talento – di Quentin Tarantino, che al “maestro” è piaciuto tanto da fargli arrivare due premi: miglior regia e miglior sceneggiatura) quanto meno si faceva seguire grazie al ritmo folle e agli eccessi pulp, “Essential Killing” del polacco ormai inglesizzato Jerzy Skolimowski (due premi anche lui: premio speciale della giuria e premio per il miglior attore) è il classico film da festival che o si ama o si odia.
Poche parole, una fuga continua e una tesi che si divora il film, che narra di un talebano (con la faccia improbabile dell’italoamericano Vincent Gallo, premiato esageratamente con la Coppa Volpi) che ammazza in un agguato tre soldati Usa in Afghanistan, viene catturato e torturato, poi trasportato in un paese dell’Est europeo dove riesce a evadere e inizia una lunga e tutto sommato fortunata lotta per la sopravvivenza. Film che finisce all’improvviso, come altri del festival: finale “aperto”, si chiama. Spiegatelo a chi dovrebbe pagare il biglietto. Ma è un problema relativo: molti di questi film circoleranno poco e male (in Italia, infatti, alcuni sono senza distribuzione). Perché vanno bene i festival, per quei fatidici undici giorni.
Però alla fine, nei cinema, bisogna metterci qualcosa che valga il prezzo del biglietto. Tra i film non considerati, erano meritevoli “Post mortem” del cileno Pablo Larrain e “La solitudine dei numeri” primi di Saverio Costanzo, ma anche “La versione di Barney” con uno straordinario Paul Giamatti: ma questi ultimi due hanno fatto storcere il naso chi si aspettava (solito falso problema, con romanzi di tale successo) un’inutile e pedissequa aderenza alla pagina scritta. Certo, il coraggio maggiore sarebbe stato premiare finalmente una commedia: e infatti due film che hanno fatto uscire la gente contenta dalle sale erano “La passione” di Carlo Mazzacurati (con Silvio Orlando regista cinematografico in crisi costretto a cimentarsi con una Sacra rappresentazione del Venerdì Santo, con esiti tragicomici) e “Potiche” del solito plumbeo François Ozon, illuminato da un super cast dove spiccano Gérard Depardie e Catherine Deneuve.
Film ben girati, ben recitati, divertenti ma acuti, come se ne facevano una volta. Ma che a Venezia – come a Cannes, Berlino, Locarno – non si premiano quasi mai, e che fanno scattare un fenomeno curioso (soprattutto se il film è italiano): ridono tutti alla proiezione stampa, però poi le recensioni sono tutt’altro che generose…
E allora, in un’annata poco entusiasmante, è giusto che la scelta sia caduta su Somewhere: scelta di compromesso virtuoso, non a caso già nei cinema dove può sottoporsi al giudizio degli spettatori comuni. Del pubblico vero.
Ecco tutti i vincitori della 67esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia:
LEONE D’ORO Sofia Coppola per Somewhere
LEONE D’ORO PER L’INSIEME DELL’OPERA (premio speciale) Monte Hellman per Road to Nowhere
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA Jerzy Skolimowski per Essential Killing
LEONE D’ARGENTO PER LA MIGLIOR REGIA Alex de la Iglesia per Balada Triste de Trompeta
COPPA VOLPI PER IL MIGLIOR ATTORE Vincent Gallo per Essential Killing
COPPA VOLPI PER LA MIGLIORE ATTRICE Ariane Labed per Attenberg
PREMIO MASTROIANNI ALL’ATTORE EMERGENTE Mila Kunis per Black Swan
PREMIO OSELLA PER LA SCENEGGIATURA Alex de la Iglesia per Balada Triste de Trompeta
PREMIO OSELLA PER IL MIGLIOR CONTRIBUTO TECNICO Direzione della fotografia: Mikhail Krichman per Silent Souls
PREMIO DE LAURENTIIS OPERA PRIMA Seren Yuce per Cogunluk
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA John Woo