Pedro Almodovar è regista tanto abile quanto spregiudicato. Abile nel gestire emozioni, suscitare reazioni forti (quando nei primi film “scandalizzava” alcuni ed esaltava altri), e da qualche anno sempre più eccellente dal punto di vista tecnico. Anche nel nuovo film, La pelle che abito, impressiona fin dall’inizio, con la sua capacità di descrivere una casa-prigione inquietante, con uno schermo enorme da cui il protagonista osserva una ragazza prigioniera e forse amante, con un’atmosfera quasi horror che fa trattenere subito il fiato. Ma con il passare dei minuti l’impressione è di un racconto che si avvita su se stesso, non riuscendo a risultare significativo, emozionante e quindi bello come i suoi film migliori. Deludendo, a colpi di scena sempre più scioccanti, ma in fondo prevedibili, anche gli ammiratori più ferventi.
Ma procediamo con ordine. Il nuovo film, presentato mesi fa in concorso a Cannes e da poco nelle sale italiane, è la storia del dottor Robert Legard, colpito anni prima dal grave lutto della morte della moglie (carbonizzata nel rogo della sua auto). Quella tragedia lo portò a ritirarsi dall’attività di chirurgo, ma non dagli esperimenti – teorizzati in convegni internazionali in cui i colleghi scienziati gli intimano di fermarsi sulla strada di pratiche eticamente illegittime – sulle plastiche facciali; o meglio, dalla ricerca sui trapianti di pelle per casi gravissimi di ustioni, in modo da “costruire” una pelle resistente a tutto.
Il chirurgo nasconde segreti e zone d’ombra, a partire da una casa che sembra un castello, con tanto di (misteriosa) governante/guardiano e di ragazza prigioniera di una stanza/torre. Chi è Vera, che il dottor Legard osserva da un monitor come fosse una preda in gabbia? Che legame c’è tra i due? E perché la ragazza sembra accettare la situazione?
Se la storia già così vi sembra fin troppo complessa, non immaginate lontanamente cosa avviene dopo. Almodovar è regista che ama i colpi di scena, i flashback (che spesso perdono di forza perché raccontati a voce), le scene a effetto, i toni sospesi tra thriller e melodramma, e anche le situazioni più inverosimili. Anche nei suoi film più riusciti, come Tutto su mia madre, Parla con lei o Volver; che pure potevano, a buon diritto, lasciare perplessi su alcuni passaggi. Stavolta. però, mancano i pregi, mentre l’insieme tende a franare di continuo; e se a Cannes la stampa si è tutto sommato divertita di fronte a eccessi comunque catalogabili nelle “stranezze” tipiche di un film da festival, l’impressione è che il pubblico “normale” in sala si perda ben presto e si irriti quando i vari segreti trovano soluzioni improbabili o sgradevoli.
Un esempio è quando irrompe nella casa del chirurgo un uomo in fuga dalla polizia, con un travestimento di carnevale da tigre, che sparisce in fretta in un vortice di sangue e violenza (ma la cosa che spiazza di più è una madre che non piange il figlio appena ucciso). E così via, tra cambi di sesso, stupri, uccisioni, suicidi, segreti, parentele dissimulate, amori folli e dolori vari, ma che alla fine non riescono a toccare. Al limite si può provare ammirazione per qualche virtuosismo, per una tensione ben congegnata (man mano che passano gli anni Almodovar sembra ispirarsi non solo ai classici del melò, ma anche del thriller), per qualche singolo “episodio” o battuta.
Ma la storia non è all’altezza delle ambizioni: si vorrebbe riflettere su “temi” alti – fino a che punto si può spingere la vendetta? È possibile amare chi ti ha fatto del male e hai odiato a lungo e visceralmente? -, ma troppo “scritti”, teorici, poco sentiti. Come la metafora della “pelle” resistente a tutto, in grado di sopportare ogni dolore. Mentre si accentua il leit motive di un’esistenza dove nulla ha senso e dove vale tutto, dove ogni esperienza è lecita: anche se in questa confusione e accumulo di possibilità non giudicate, c’è chi ci lascia le penne.
Gli eccessi, peraltro, stavolta sono più ridicoli che disturbanti (anche se, appunto, talora il film diventa sgradevole); è il mix complessivo tra ragioni e comportamenti dei personaggi a risultare completamente insensato. Nonostante l’ottima prova degli attori, che sono la cosa migliore del film: da un Antonio Banderas (che esordì con l’amico Pedro vent’anni fa) misurato pur in una parte ingrata, alla “storica” collaboratrice Marisa Paredes, alla new entry Elena Anaya. Ma non bastano a raddrizzare una barca in tempesta.