Largamente annunciata, la vittoria agli Oscar del “re balbuziente” è anche meritata. Il film britannico Il discorso del re era il favorito della vigilia, grazie alle sue dodici nomination e ai numerosissimi premi “pre Oscar” (i premi dei produttori, dei registi, di molte associazioni di critici) che da mesi lo laureavano vincitore. Ma The social network godeva di molti favori e aveva ottenuto qualche “vittoria di tappa” pure lui, ed è stato quindi fino all’ultimo un osso duro.
Erano, apparentemente, i due estremi del cinema possibile. Da un lato il film vecchia maniera, non a caso inglese, su un fatto storico del passato che toccava temi importanti come l’amicizia, l’onore, il senso della Patria, con uno stile classico, battute brillanti e un finale epico; l’ideale per il pubblico colto, adulto, in cerca del cinema “di una volta”. Dall’altra parte, il film più moderno che si potesse pensare, quasi un istant movie sul fenomeno degli ultimi anni, Facebook, il sito – meglio, il social network appunto – che dieci anni fa nemmeno esisteva (e neanche otto anni fa, essendo stato fondato nel 2004) e che oggi ha 500 milioni di utenti in tutto il mondo; un film su un fenomeno nato da giovani e per giovani, con uno stile moderno e accattivante, battute folgoranti, sentimenti forti, personaggi ambiziosi e cinici (a cominciare, ovviamente, da Mark Zuckerberg).
In realtà, i due film sono meno lontani di quanto si pensi: perché sono due film che puntano sulla sceneggiatura, sui dialoghi, sulla recitazione e non sul divismo, gli effetti speciali, il richiamo a temi di attualità diretti o metaforici, o a battaglie “civili” (con il rischio che il ricatto del tema prevalga sulla qualità del film). In breve, sono due grandi film. E non necessariamente con pubblici così diversi: perché il “re” Colin Firth e la sua amicizia con il logopedista Geoffrey Rush può attirare anche giovani interessati all’umano prima ancora che alla Storia, e The social network è in fondo un dramma con tutti gli ingredienti classici, dal tradimento dell’amicizia alla scalata sociale del giovane disprezzato da coetanei altolocati. Potrebbe averla scritta Shakespeare, la sceneggiatura (social network a parte, che si vede pochissimo: chi temeva un film fatto di soli computer si è ricreduto).
Checché ne dicano alcuni commentatori, che hanno parlato di annata mediocre, il 2010 passato sotto la lente di ingrandimento degli Oscar è stato eccellente. Di ottimi film ce ne erano parecchi, quasi tutti quelli finiti nella decina dei candidati al miglior film (a parte il “bluff” I ragazzi stanno bene, ideologico e banale che cercava di sdoganare la “normalità” di una famiglia con due mamme lesbiche). E al contrario dell’anno scorso – con la “guerra” tra Avatar e Hurt Locker, due film davvero molto diversi – quest’anno la varietà di titoli in lizza aveva un unico comun denominatore: si trattava di ottimi film ben scritti, ben recitati, ben diretti, con storie significative ed emozionanti.
Perfino un film che non abbiamo amato alla follia, Il cigno nero (troppo morboso e a tratti horror per i nostri gusti) è artisticamente interessante, ha una sceneggiatura non originalissima ma che si fa seguire e ottimi attori, su tutti una Natalie Portman non a caso premiata. Ma ancor meglio erano Inception (quattro premi nelle categorie “tecniche”), Il grinta (dieci nomination e nessun premio per il grande western dei fratelli Coen), 127 ore (i più sensibili si coprano gli occhi nell’ormai famosa scena choc sul finale, ma non lo perdano), il bellissimo Toy Story 3 (ennesimo trionfo Pixar nell’animazione, ma come per Up e altri loro film qui si va ben oltre il genere “per bambini”), The Fighter che il pubblico italiano vedrà da venerdì 4 marzo (con un grande cast, tra cui Christian Bale e Melissa Leo vincitori dell’Oscar), il duro Un gelido inverno… In quante annate si trovano così tanti film “da vedere”? Perfino nella categoria “film stranieri” c’era l’imbarazzo della scelta: dimenticato colpevolmente Uomini di Dio, il duello tra In un mondo migliore (che ha vinto la statuetta) e La donna che canta era di altissimo livello.
In un’annata così ricca, era normale che anche il trionfatore non facesse incetta di premi: solo 4 a Il discorso del re (a pari merito con Inception, che però ha vinto in categorie di minor valore); oltre al miglior film, lo strameritato premio al protagonista Colin Firth (da ascoltare in lingua originale, se possibile: e per fortuna alcuni cinema italiani permettono questa visione), la regia del semisconosciuto Tom Hooper (qui si poteva anche azzardare una scelta diversa, anche se non è affatto una regia mediocre, ma classica e funzionale alla storia) e la sceneggiatura originale di David Seidler. Quando ci sono tanti film importanti e riusciti, la scelta può sembrare casuale. E, in effetti, non si sbagliava scegliendo The social network (o Il grinta, o 127 ore).
Ma bisogna tener conto di un altro elemento: se l’Oscar, nelle sue edizioni più felici, sapeva indicare non solo un “bel film” ma un vincitore significativo, allora bisogna dire che Il discorso del re è il titolo perfetto. Dal punto di vista cinematografico, rivaluta tutti i valori tecnici, estetici, interpretativi del grande cinema (un esempio su tutti, l’incredibile perizia di Colin Firth nel simulare la balbuzie), che solo osservatori superficiali possono considerare maniera. Era il titolo più completo in lizza, perché riassumeva il meglio del cinema classico con spruzzate di moderno (per esempio nella scrittura: il personaggio del logopedista Logue è presentato in un modo certo non immaginabile qualche decennio fa).
Ma il film di Hopper è significativo anche perché ha dalla sua parte non solo la bellezza, ma anche la grandezza: di una storia epica, che fonde i destini singoli (i difetti fisici e psicologici del protagonista, l’amicizia con Logue), con la Storia. E che Storia: un uomo, il principe Alberto diventato poi re Giorgio, che sale al trono nonostante la sua ritrosia, e si trova ad affrontare la grande tragedia della Seconda guerra mondiale. Di grande, Il discorso del re ha soprattutto il finale (vero punto di forza di un film per diventare indimenticabile): trascinante con il discorso sulle note della Settima di Beethoven, commovente con il popolo che lo ascolta alla radio e si unisce al suo Re, esaltante nel far scoprire a un uomo insicuro il valore della sua persona grazie all’amicizia e all’amore di chi gli sta attorno.