Diciamolo senza giri di parole: la Palma d’oro a The Tree of Life è meritata. Il film diretto dal misterioso Terrence Malick, che non si è fatto vedere al festival nemmeno per ritirare il premio, ha spiazzato anche molti fan del suo cinema rarefatto e pensoso, filosofico e più appoggiato sulle immagini che su dialoghi quasi inesistenti (sostituiti da monologhi interiori, qui in realtà solo brevi frasi dei vari personaggi). Però, tra tanti presunti geni del film (come il thailandese dal nome impronunciabile, Apichatpong Weerasethakul, che vinse lo scorso anno con un film sopravvalutatissimo), Malick ha davvero la capacità di tenere insieme ambizioni altissime e film che tolgono il respiro per bellezza e intensità.

Cinema per pochi, d’accordo: ma chi, ben preparato, si lascerà affascinare da immagini, riflessioni e domande (strazianti) di questo capolavoro imperfetto (come sempre nel suo cinema personalissimo e sincero), non se ne pentirà; e, per fortuna, già nei cinema italiani, il film sta riscontrando reazioni appassionate dagli spettatori. Insomma, siamo di fronte non al film elitario per spocchia autoriale, ma per (rischiosa) scelta di argomenti altissimi (le domande su Dio e sulla Grazia generate da un fatto tragico, che sfociano in un riflessione sull’intera creazione; il conflitto tra Natura e Grazia; la figura del Padre) affrontati con una forma adeguata e profondità da grande artista.

Spesso avvicinato a Kubrick (e tanti hanno citato, giustamente, 2001 Odissea nello spazio tra i possibili confronti), qui Malick rinnova emozioni generate in passato da grandi artisti (viene in mente Tarkovskj, anche per la comune sensibilità figurativa anche a scapito di un’immediata comprensibilità). Difficilmente, tra i tanti film pur belli di un’edizione di Cannes positiva come poche volte, ci viene in mente un vincitore più adeguato di The Tree of Life. Tanto che per una volta si può parlare di opera d’arte (ripetiamo, nonostante qualche difetto e osticità) senza spreco di parole.

Riconosciuti a Malick i suoi meriti, Cannes 2011 è stata però appunto un’ottima edizione, anche se – come per il vincitore – non intravediamo film dai consensi oceanici. Concentrandoci sul concorso (tra i tanti titoli delle altre sezioni, basti accennare al toccante Mr Beaver di Jodie Foster, con Mel Gibson, già in sala), possiamo dividere i film che hanno gareggiato per i premi tra quelli classicamente da festival – duri, angoscianti e talvolta provocatori – e altri che, pur d’autore, cercavano una via più lieve nel raccontare problemi e drammi.

Questa seconda tendenza, in genere snobbata a Cannes come a Venezia, quest’anno è stata maggiormente apprezzata: forse certe provocazioni hanno iniziato a stancare… Così il delizioso The Artist, film quasi muto (a parte rarissimi, giustificati suoni e parole) e in bianco e nero, è stato gettonato nei pronostici e alla fine ha portato a casa almeno il riconoscimento per il protagonista maschile, Jean Dujardin, che sembra un Gene Kelly redivivo. Omaggio al cinema muto, ma anche a Cantando sotto la pioggia (si rievoca anche qui l’epocale passaggio al sonoro), era sicuramente il film più divertente, allegro, gioioso. Non sappiamo quanti si lasceranno convincere, tra qualche mese, a vederlo nei cinema: il nostro consiglio è di tentare anche questa esperienza…

Più lieve del solito, in una cinematografia realistica e tesa, era anche il nuovo film dei fratelli Dardenne, Il ragazzo con la bicicletta: abbonati ai premi, i due belgi anche stavolta sono finiti tra i vincitori, con il secondo premio (il Grand Prix) ex aequo al turco Nuri Bilge Ceylan di Once upon a Time in Anatolia, noir che a sua volta fa parte della prima categoria, quella delle opere per i palati fini dei critici ma che concedono poco allo spettatore comune.

Tra i film di una nuova tendenza alla leggerezza, c’era invece Le Havre, fino all’ultimo tra i favoriti: primo film girato in Francia dal finlandese Aki Kaurismaki che, mentre in genere lascia una via di uscita ai drammi dei suoi protagonisti dopo lunghe sofferenze, stavolta ha optato direttamente per una favola gentile piena di miracoli laici. Le Havre ha conquistato molti, ma anche fatto storcere il naso a qualcuno: in effetti, se il dramma non è tale, il lieto fine suona un po’ troppo facile. Ma sicuramente il film si farà apprezzare anche nei cinema.

L’esclusione di Kaurismaki dal palmarès farebbe pensare alla solita polemica sulle giurie, ma bisogna ammettere che questa volta i giudizi – pur escludendo inevitabilmente qualche film meritevole – sono sembrati corretti, o quanto meno non scandalosi: azzeccato in particolare il premio per la miglior regia al talentuoso danese Nicolas Winding Refn, che per la prima volta ha lavorato in America, con il duro e intensissimo Drive, storia di uno stuntman che arrotonda con piccoli colpi, ma si ritrova in un affare più grande di lui per amore di una dolce vicina di casa. Non ci fosse qualche sequenza troppo violenta, un film davvero da non perdere, con un’ottima coppia di attori formata da Ryan Gosling (Lars e una ragazza tutta sua) e Casey Mulligan (vista nel recente Non lasciarmi); in ogni caso, il film è la consacrazione per un talento che si farà conoscere dal grande pubblico, dopo le rassegne in festival di nicchia.

Bene anche il Premio della Giuria a Polisse, buon poliziesco francese di Maiwenn Le Besco. Mentre giustamente la giuria, assegnando il premio come miglior attrice a Kirsten Dunst per la sua interpretazione nel pur irritante e apocalittico Melancholia, ha distinto le qualità artistiche del film e in particolare della sua protagonista femminile con gli sproloqui filonazisti (ovviamente da stigmatizzare) in conferenza stampa del regista Lars Von Trier, la cui leggendaria depressione lo ha trasformato in triste provocatore di scandali verbali. Da compatire più che da additare a ennesimo bau bau della compagnia di giro festivaliera (che anni fa lo esaltava quando si proclamava comunista e percorreva la celebre scalinata col pugno chiuso): giusto mandarlo a casa a riflettere sulle stupide frasi comprensive su Hitler, per quanto frutto di un alterco con un giornalista; sbagliato trasformare in “mostro” da ostracizzare un regista definito fino a ieri geniale (e magari riconsiderare negativamente anche i suoi film migliori, come Le onde del destino e Dogville).

Tra gli altri film del concorso, con il cupissimo (e narrativamente sbaricentrato) La piel que habito Pedro Almodòvar si è confermato – un po’ come lo stesso Von Trier – tanto talentuoso nella messa in scena quanto di umor nero per quel che racconta, oltre tutto penalizzato dalla scarsa credibilità generale della storia di vendette, amori folli, stupri e cambi di sesso. Violenze e vendette al centro anche di una storia di samurai in Ichimei di Takashi Miike (in un inutile 3D), ben fatto ma un po’ fine a se stesso, come ancor più film di durezze visive o psicologiche erano We need to talk about Kevin (in cui un adolescente terribile, che odia la madre e uccide padre e sorella, nonché altri coetanei), Michael (un pedofilo segrega un ragazzino per anni), Sleeping Beauty su una ragazza che si prostituisce con vecchi laidi o il bruttissimo Apollonide ambientato in un bordello francese di fine ‘800.

Ma la media è stata, al contrario di alto livello: non sono tante le annate con sei o sette film davvero notevoli da portarsi a casa. Tra questi c’era anche This must be the Place di Paolo Sorrentino, uno dei due italiani in concorso: ma mentre di Habemus Papam di Nanni Moretti, uscito da un mese in Italia, si sapeva tutto nel bene e nel male (e anche a Cannes ha diviso la critica internazionale), del film del regista napoletano c’era grande attesa. Sorrentino ha diretto un grande Sean Penn nel ruolo di una rockstar ormai in disarmo e perennemente truccata in modo imbarazzante, confermandosi un grande regista (certe intuizioni e squarci visivi sono eccezionali), anche se nella narrazione si perde un po’.

Non tutto convince, ma il film – che uscirà in Italia a ottobre – è la riscoperta di un padre ormai perduto che a tratti commuove. E se la questione storico-politica (la ricerca del nazista che umiliò il padre in campo di concentramento) rischia di sviare troppo dal cuore del film, This must be the Place è tra le cose migliori della 64a edizione di Cannes. Senza premi, ma che importa? Con Il divo il regista italiano aveva già avuto soddisfazione da queste parti.