Come si prevedeva sulla carta, è stato un’ottima Mostra di Venezia quella che si è conclusa sabato 10 settembre e che inaugura una stagione che sembra promettere bene per il cinema, molto vitale nonostante la crisi finanziaria. Tanti ottimi film, qualità media molto alta, pochissime bufale. In concorso e non.
Se ci limitiamo ai film in gara per i premi, non era facile scegliere tra i tanti ottimi film in concorso al Lido. Ma sicuramente non ci può essere più “film da festival”, e quindi Leone d’oro migliore, del Faust di Alexander Sokurov, rilettura potente, barocca e visionaria dell’opera di Goethe da parte di un regista da tempo tanto amato da cinefili europei e critici di tutto il mondo quanto poco conosciuto dal pubblico “normale”. Le sue opera più famose: Madre e figlio, Arca russa, Alexandra e poi quella trilogia del potere – Moloch su Hitler, Taurus su Lenin e Il sole sull’imperatore Hirohito – che diventa tetralogia appunto con Faust. Opera ancora più ambiziosa delle precedenti perché in questo caso il Potere è rappresentato dal Demonio, un diavolo tentatore e infido, laido e malandato. Cui Faust vende, come noto, l’anima per la sua sete di conoscenza e brama di vita, ma sapendo che qualsiasi cosa non gli basta. Il film non è certo dei più semplici, e scene sgradevoli e cupezza di ambientazioni potranno allontanare un pubblico non motivato. Ma grandezza del personaggio e talento del regista ne fanno un degno vincitore.
D’altro canto, la giuria presieduta dall’incostante e genialoide Darren Aronofsky (che vinse il Leone d’Oro nel 2008 con il bellissimo The Wrestler mentre lo scorso anno portò il morboso Cigno nero) non prometteva niente di buono: i profili dei vari giurati – il regista francese André Techiné, il regista americano Todd Haynes, il musicista britannico David Byrne, il regista italiano Mario Martone, l’attrice italiana Alba Rohrwacher e l’artista visiva e regista finlandese Eija-Liisa Ahtila – facevano pensare a scelte estreme, in grado di mandare in solluchero i cinefili e risultare penitenziali per chi pensa che il cinema lo si fa ancora per il pubblico che paga il biglietto in sala. Una posizione che dovrebbe essere scontata, e che invece a Venezia suscita reazioni inorridite.
A partire da queste considerazioni, se il Leone d’oro è corretto e accettabile, il complesso dei premi lo si può prendere con mesta rassegnazione.
In un’annata davvero ricca di ottimi film e con poche delusioni, si poteva scegliere meglio. Ma se pensiamo che in altri casi, con giurie simili, vincevano il Leone d’oro opere dimenticabili pochi anni dopo si può tirare un sospiro di sollievo.

Il Leone d’argento per la regia a Shangjun Cai per il film sorpresa People Mountain, People Sea premia un autore inviso al regime e un’opera che rischiava di non arrivare a Venezia per la censura che non deve aver amato la rappresentazione del Paese (un uomo vuol vendicarsi dell’assassino del fratello, in una Cina squallida e misera); ma se è naturale la simpatia per un autore costretto a lavorare in condizioni non libere, la qualità dell’opera non supera quella di molti “mattoni” da festival.
Stesso discorso per Alpis del greco Yorgos Lanthimos, premio per la miglior sceneggiatura, film in cui un’idea originale (un gruppo di personaggi sopra le righe arrotonda prendendo il posto, a pagamento, di persone scomparse per far elaborare il lutto o l’abbandono a chi soffre) si perde tra lentezze esasperanti, violenza, scene disgustose e gratuite.
Meglio il Premio Speciale della Giuria (tecnicamente un terzo posto) per Terraferma di Emanuele Crialese che riporta l’Italia sul podio veneziano: il film fatica a entrare nel cuore del dramma, in una Lampedusa (ma il film è girato a Linosa) dove si susseguono gli sbarchi dei clandestini, e dove un gruppo di personaggi deve fare scelte delicate; ma il finale si fa apprezzare e ricordare, anche se da Crialese – di cui si apprezzarono i precedenti Respiro e Nuovomondo – non ci si aspettavano banalità e schematismi che pure a tratti fanno capolino, e anche le sue qualità visive stavolta sono un po’ appannate.
I riconoscimenti più meritati ci sembrano invece quelli degli attori protagonisti: Michael Fassbender, che in Shame disegna la parabola di autodistruzione di un uomo dipendente dal sesso in tutte le forme possibili e immaginabili, e Deanie Yip che nel commovente film cinese A simple life interpreta un’anziana governante che dopo sessant’anni presso una famiglia si troverà ad essere assistita nella malattia dal suo giovane “padrone”.
L’altissima qualità media del concorso lascia a bocca asciutta tanti film che hanno ben impressionato, ma che non dovrebbero faticare a recuperare con il pubblico: a cominciare da Carnage di Roman Polanski, fino a pochi giorni fa  il favorito per la vittoria. Da uno spunto banalissimo – due coppie si incontrano per superare “civilmente” il problema di una rissa tra i rispettivi figli, ma poi il nobile tentativo finisce in vacca per l’emergere di pulsioni e tensioni incontrollabili – il regista apolide e con noti problemi giudiziari che l’hanno tenuto lontano da Venezia trae fuori un gioiellino di 80 minuti scarsi, ricco di intelligenza, humour e ritmo con quattro attori uno più bravo dell’altro (Christoph Waltz, già “nazista” in Bastardi senza gloria, Kate Winlset, Jodie Foster e John C. Reilly).

Grande intelligenza e grandi attori, ma anche notevole tasso di pessimismo (e realismo) politico in Le idi di marzo, film che aveva inaugurato la rassegna diretto da George Clooney, che si è scelto come già in Good Night and Good Luck non il ruolo del protagonista (un giovane e brillante addetto stampa interpretato da un ottimo Rayn Gosling) ma quello ambiguo e incombente del candidato democratico alle presidenziali, che ingaggia un fiero duello con il rivale alle primarie del suo stesso partito. Nei loro staff, intanto, succede di tutto (e si apprezzano i “soliti” Philip Seympour Hoffman e Paul Giamatti).
Altro film che sprizza ritmo, intelligenza e pessimismo con attori superlativi al suo servizio è Tinker, Taylor, Soldier, Spy (in Italia uscirà come La talpa), film inglesissimo seppur diretto dallo svedese Tomas Alfredson: dal romanzo di John Le Carrè, una storia di spionaggio tesa e brillante, già portata sul piccolo schermo negli anni 70 in uno sceneggiato a puntate della BBC con Alec Guinness. A confrontarsi con tale mostro sacro un superbo e controllatissimo Gary Oldman, affiancato da attori come Colin Firth, Marc Strong, Tobe Jones, John Hurt e tanti altri. Sullo sfondo della guerra fredda, il servizio segreto britannico è scosso da veleni e da voci che fanno pensare a una “talpa” al servizio del nemico sovietico. Un agente in pensione deve tornare in servizio per scoprire il traditore.
E se A Dangerous Method di David Cronenberg, sul triangolo tra i padri della psicanalisi Sigmund Freud  e Carl Gustav Jung con la giovane Sabina Spielrein (amante del secondo ma poi allieva del primo) si fa ricordare più per gli attori – ancora Fassbender e poi Viggo Mortensen e Keira Knightley – che per una storia didascalica e un po’ inerte, altri film hanno suscitato un’impressione positiva, tra cui Poulet aux Prunes dell’iraniana Marjane Satrapi e del francese Vincent Paronnaudvicendatriste impaginata con stile vivacissimo e romantico, Wuthering Heights ovvero Cime tempestose, ennesima versione del romanzo di Emily Bronte con uno stile più realistico e crudo (forse anche eccessivo), e il “pulp” Killer Joe del mitico William Friedkin (Il braccio violento della legge, L’esorcista, Vivere e morire a Los Angeles) con un Matthew McConaughey mai così bravo. Senza contare film fuori concorso e nelle altre sezioni laterali. Insomma: partendo da Venezia – e considerando tante altre pellicole già in sala o in arrivo – ce ne saranno da vedere, di film, nei prossimi mesi.